martedì 12 dicembre 2017

Tommaso Romano, "Schegge di Estetica" / 2

L'artista è un facitore di ponti fra la realtà e il suo essere e manifestarsi idealmente e fattualmente attraversando le sue opere. Chi sostiene la scissione e l'autonomia dei linguaggi settoriali dell'arte, ha una visione scissa, parcellizzata, disorganica della creatività, che deriva da un Dono che trascende l'artista e che egli stesso può sempre affinare, nella ricerca verso un continuo perfezionamento. L'arte ha così una sua specificità redimente in sintonia con la vita ed anche in conflitto se necessario. Tale specificità va perseguita o praticandola e svolgendola come atto - frutto di visioni, razionalità, esperienza o sogno - o fruendola come possibilità spirituale ed estetica. Tuttavia, è sempre a partire dalla natura che apprendiamo il significato profondo del fare arte, non esclusivamente come mera ripetizione o imitazione, quanto come ri-creazione che non può non esprimersi in comunicazioni plausibili, non solo in mero esercizio - tutto da provare, fra l'altro - concettuale e falsamente minimalista. Ora, davanti allo svolgersi nichilistico e mercatista della modernità, l'arte si mistifica nella sua stessa natura e vocazione, perdendo ciò che invece l'aveva sempre contraddistinto come necessità etica ed estetica di un umanesimo creaturale non solo orizzontale (ma neppure solo verticalizzato) pragmatismo delle occasioni, né tantomeno come perseguimento del brutto, eretto a sistema e destino, quasi una metafora di gnosi spuria del cammino sulla terra, inteso come condanna e solo dolore. E ciò, appunto, può valere in tutti i dominii in cui l'arte si risolve: pittura, musica, scultura, parola letteraria e filosofica, fotocinematografia, considerate, piuttosto, discipline in relazione, dialoganti e in unità sostanziale, in oltreprassi, in autentica liberazione dell'ovvio.
Senza un'aspirazione alla trascendenza sul piano spirituale, veicolando e promuovendo il fondamento che è oggettivo alla bellezza, l'artista che conosce i limiti e rigetta l'onnipotenza, potrà edificare la sua interiorità e la sua stessa vocazione prima ad essere e poi ad apparire nel mondano e spesso transeunte successo. Anche i luoghi possono essere veicoli di simbolicità ulteriore, non solo per ciò che rappresentano storicamente, quanto per le suggestioni, le riflessioni, la penetrazione dei significati che essi ci propongono come riflessione ulteriore all'esserci, sul divenire, sulla libertà e sul nostro stesso destino.
Affidare il talento, quindi, non allo sterile narcisismo ma proiettarlo oltre, con rigore, verso l'infinita perennità cosmica. Tutto ciò è, non solo auspicabile, ma doveroso compito dell'artista e di coloro che si pongono esteticamente il tema dell'arte, per ridare - almeno nella propria individuale specificità e scelta vitale - un senso in grado di poter umilmente ma fermamente discernere cercando nell'opera l’Immagine, che è lo splendore del bene, di ciò che è armonico e giusto in mezzo alle barbarie dal volto disumano e disumanizzante, al laccio della regia egemonica occulta della tecnofinanza e dello scientismo, che orienta e impone nel mercato gusti, tendenze, mode.

Sarà questo un modo non effimero per rendere così testimonianza fattiva e contemplativa, al contempo, alla bellezza e alla forza del "Disegno intelligente" che è il Creato, che Dio ci ha consegnato (non solo la terra, ma il cosmo intero) e che, avendolo in custodia, abbiamo il dovere ma anche il potere di preservare, se ne saremo all'altezza, degni e capaci, per così affermare - sapendoli comunicare, trasmettere - i valori, nella sostanza ma anche nella forma, per non piegarsi alla dittatura dello spirito del tempo che ci è dato vivere.

mercoledì 6 dicembre 2017

Cristina Battocletti, "Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste" (Ed. La nave di Teseo)

di Tommaso Romano

Bobi (Roberto) Bazlen, Trieste 1902 – Milano 1965, è stata certamente una delle personalità centrali della cultura del Novecento, specie riguardando le complesse vicende dell’editoria nazionale, di cui fu scelto protagonista, che lo portarono con Luciano Foà a fondare la casa editrice Adelphi (1962), oggi diretto dall’allora giovane sodale, Roberto Calasso.
Il corposo volume Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, edito da “La nave di Teseo” (2017, €19,50), se ne occupa con rigore, grande padronanza e consonanza, Cristina Battocletti, nata a Udine, caposervizio della “Domenica” del “Sole 24 Ore”, critica cinematografica, autrice di biografie, racconti e di un romano di largo successo La mantella del diavolo (Bompiani, 2015). Con questo libro su Bazlen, la Battocletti recentemente ha avuto assegnato a Belpasso, il prestigioso Premio Internazionale “Nino Martoglio”, la cui Giuria era presieduta da Sarah Zappulla Muscarà.
Molto indicativa, l’apertura del libro, con una simbolica frase di Bazlen tratta da una lettera a Stelio Mattioni, del 1964, che traccia e rende un efficace autoprofilo: “Rinunciare: no; reagire: no; realizzare il prima possibile”.
L’aura misteriosa in cui è stata avvolta la figura di Bazlen, a cui ha dedicato un documentario, nel 1983, Aldo Grasso, converge con quella di uno straordinario “annusatore di libri” dal “suono giusto”. Poliglotta di cultura e formazione, scoprì Italo Svevo, pubblicò anche Kafka e Robert Musil e cento altri imperdibili.

Ebreo per parte di madre, evangelico di parte paterna, fu un visionario laico, amatissimo e detestato, come si conviene agli uomini oltre la soglia della conformistica mediocrità. Quasi ascetica e certamente leggendaria la sua intrapresa intellettuale ed editoriale, costellata da incontri plurali: da Umberto Saba alla Morante, da Montale a Cristina Campo, da Savinio a Adriano Olivetti, capace anche di suscitare forti antipatie da parte, per esempio, di Pasolini e Moravia.
Irregolare, fuori dal coro e dagli schemi sempre, superstizioso e antipratico per eccellenza, con interessi esoterici e psicanalitici (fu amico e paziente di Ernest Bernhard), “rabdomante di talenti”, praticò come intima necessità il nomadismo dei luoghi dove si spostava in continuazione e quello delle idee plurali, sempre professate in rigorosa libertà e da autentico airone libertario, anche in amore.
Come ben nota la Battocletti, “Bazlen disprezzava Ulisse, perché era un piccolo uomo salvato dall’astuzia minuta e scorretta”, preferendo ai miti greci, quelli assiro-babilonesi e indù, “per lui l’Occidente era roba da ragionieri. Amava l’Oriente e il Taoismo, il caso stabilito da certe regole, ammorbidito da certo disincanto”.
Un uomo dietro le quinte autore di una sola opera uscita per altro postuma da Adelphi, lo definisce questa sua biografa d’eccezione, capace di influenzare e segnare la storia dei grandi libri e delle idee.
La Battocletti ci consegna così un testo maiuscolo, che si legge con crescente e partecipato interesse, attraversato da un’arabescata capacità narrativa che include la filologia essenziale, mai pedante però, e una esaustiva bibliografia. Le pagine scorrono sostenute da una sostanza poematica che il lettore accorto, assaporando questo bel libro, vi troverà sicuramente.

dal n. 93,  anno XXXI, Ottobre - Dicembre 2017 di Spiritualità  & Letteratura

Tommaso Romano, "Schegge di Estetica" / 1

Se l'arte possiede una sua intrinseca grammatica per comunicare significato donando un senso, essa ha bisogno di segni efficaci che simboleggino i concetti. Tuttavia, senza una grammatica rivelativa si ha in Arte, la deriva del linguaggio espressivo (in pittura, scultura, poesia, narrazione, musica, architettura) nella caduta babelica del non senso, nel disarmonico, del falso concettuale, (dato che il vero è affidato alla indagine razionale della filosofia e dell'estetica, e a quella che penetra il mistero della verità affidata anche alla teologia, elevato a individualistica e anarchica misura del proprio fare fine a se stesso).
La sostanza della forma non consiste solo nella copia del vero ma nel vero che aspira ad esserlo assertivamente, anche con modalità espressive diversificate, che hanno l'orizzonte della bellezza nel trascendersi come conoscenza sublime, di contro al tellurico devastante che, selvaggiamente e in modo bugiardo, simbolizza la dissolutiva distruzione fine a se stessa, in realtà annichilendosi.

venerdì 1 dicembre 2017

La mostrificazione dell'arte contemporanea

di Tommaso Romano

Al decadere delle tradizionali piccole mostre monografiche in gallerie d’arte, che erano spesso veri e propri spazi simbolici, centri di cultura, con ruoli essenziali di indicazione, come già nel 1959 aveva previsto Roberto Longhi, si assiste di converso, ad una ipertrofia di “eventi”, di “ grandi mostre”, in piccoli e grandi centri, in musei e “contenitori”, con ripetizioni visive e concettuali veramente deprimenti nel proporre moduli e autori, correnti e istallazioni in serie, obbedienti al grande circo, al lunapark dell’arte contemporanea, fatto di pressapochismo, sperpero di denaro, di gigantismo, di cataloghi e costosi, di banali supporti informatici; un fenomeno definito di “mostrificazioni”, giustamente, per erudire le masse e farle partecipare al rito, all’evento imperdibile.
Già nel 1996, Federico Zeri scriveva di “pleiadi di mostre e mostriciattole, spesso insignificanti, inutili, a base commerciale e promozionale, sempre costose”, e Cesare Brandi parlava di un assedio, di una “infestante proliferazione di mostre – eventi di scarso o nullo valore culturale, votate ad un effimera spettacolarizzazione fine a se stessa, «vuoti a rendere», che indicano artificialmente un consumo feticistico, bolle di sapone multicolori che lasciano dietro di sé praticamente il nulla”.
Chiavi in mano, si spostano croste e/o capolavori (con grande rischio di deperimento), non certo per ampliare criticamente la conoscenza dei giovani, e la libertà di ricerca, e senza adeguate informazioni e supporti di esplicitazioni chiare e scientifiche (non adoperando linguaggi incomprensibili per pseudo iniziati in cataloghi e supporti), senza legami con le opere, gli autori e i contesti da cui derivano le opere stesse. Il successo è dato dallo sbigliettamento delle folle a Biennali e simili fiere, che non espongono neppure le discutibili tendenze internazionali, ma i soliti noti con le solite salse acide rimescolate.
Acutamente, come sa esserlo sempre, Jean Clair ha sostenuto: “Le folle che accalcano questi luoghi, assembramenti di persone solitarie non più nuove da una fede comune, religiosa, sociale o politica (…) hanno trovato nell’arte la loro ultima avventura collettiva. Scomparsa ogni fede, ci si imbatte invece in uno smarrimento comune, in una maggiore solitudine”.
Nel relativismo del tutto lecito e del tutto da esporre/esporsi, annega così la decifrazione stessa, la comprensione dell’elementare, con l’assenza di stile autentico. Tutto è amplificato, gonfiato, nell’evento, in realtà banale, nell’appariscenza e inesistenza, come i loro protagonisti presunti. Tutto resta frutto di calcoli di mercanti e connivenze, profitti, uso di marchi e loro sfruttamento: “un Picasso” designa nell’immaginario un’automobile più che un pittore; ancora quantità contro qualità, numero, e mercificazione che generano come, sosteneva Pound, i cancri della denarolatria, avarizia, usura, scambiando culturale e arte con spettacolo, marketing ed economia, comunicazione di massa, “bene” e scambio, rendimento.
Già nel 1937 Paul Valery pronosticava, - come Spengler, Evola, Guènon e poi Eliot e Pound e tutta la teologia centrata sull’Apocalisse, - di un età in cui si sarebbe determinata “una depressione dei valori intellettuali, un abbassamento, una decadenza paragonabili a quelli (…) registrati alla fine dell’antichità”. Siamo nell’era avvizzita dell’apparenza e dell’irrealismo, per cui, come diceva Guy Debord “la realtà sorge nello spettacolo e lo è reale”.
Le mostre, gli “eventi”, fanno parte di questo penoso reality, tanto che Piero Citati ha giustamente sottolineato: “Non so quando finirà questa orgia di eventi spettacolari, con cui si cerca invano di far amare la pittura a un pubblico che non la ama”. E parlava ancora di pittura, Citati.
Oggi valgono i sontuosi allestimenti, mostre kolossal, affidate a firme che nessuno conosce per attività o progetti, “costosi cenotafi dentro cui riporre quadri e sculture” (Vincenzo Trione, Contro le mostre), esibendo come simulacri e ancora Trione “per legittimare questi teatrini di Disneyland, ci si nasconde dietro la maschera dell’operazione didattica (…) Nascono così cloni ingigantiti proiettati su schemi e su pareti che invitano lo spettatore a vivere un’irrepetibile esperienza emozionale, sensoriale, visiva (…). Il fine nobile di questi show: farci precipitare dentro complesse composizioni di icone e di colori. In effetti, però, dietro questo alibi pedagogico c’è solo la furbizia commerciale”.
Una prostituzione, che ha sedotto musei nati seriamente e oggi ridotti a predatori di proposte mediocri, anche con l’ausilio di firme, a volte, prestigiose (gli scarti, le opere peggio riuscite sono patrimonio di ognuno, ma fare la gara all’accaparramento dell’inedito pessimo, è quantomeno diseducativo).
Tutto il metro resta allora il successo, i guadagni, il numero di visitatori.
Oggi mostre e musei sono troppo spesso “mattatoi culturali”, incapaci di approfondimenti e proposte, subordinati a “percorsi” prestabiliti, che somigliano ad una fila al rancio.
Trione sostiene che bisogna ricominciare “a considerare le opere d’arte non come comparse di costosi show, ma come magnifici strumenti per interrogarci sulle nostre inquietudini, sul nostro modo di guardarci il mondo”. Oltre le “ortodossie interpretative”.
La virtualità che accompagna le mostre e le grandi rassegne come megastore e fast food totalizza, con risposta preconfezionata, le eventuali domande di senso. Un alluvione di dati e immagini ulteriori di puro intrattenimento, che evitano l’apprendimento e annichiliscono lo sguardo, senza il silenzio necessario di chi vuole fruire e il rinvio non a cataloghi costosi, ma allo studio, serio, libero, comparato. Oppure, che non è conoscibile, all’istinto di chi osserva (penso alle opere emblematiche di un Renato Mambor). Bisogna, insomma, imparare ad autoformarsi, vista l’assenza di perizia dei maestri o di semplici insegnanti, e concentrarsi su poche opere, da approfondire e conoscere, non correre per vedere tutto e non capire quasi nulla.
Questo sommovimento continuo da una mostra all’altra, alimentato da interessata pubblicità, da un continente altro, decontestualizzato, mette a rischio le opere stesse da inevitabili danneggiamenti causati da trasferimenti e imballaggi.
Naturalmente, il bello che abbiamo intorno, a cominciare da chiese e palazzi, lo ignoriamo o aspettiamo, per giungervi, improvvisate e improvvide “vie dei tesori” (è veramente indicativo il ricorso concettuale ripetuto, al denaro sempre, al “bene”, al “giacimento”, al “consumo”, all’ “utile”, alla “turistizzazione” della cultura, insomma, come se l’Eldorado risolutore consistesse in una coda ad una mostra).
Il ruolo dei cosiddetti critici – che non distinguono estetica da critica e storia dell’arte, molto spesso – dice Robert Hughes “è sfibrante. E’ un po’ come fare il pianista in un bordello: non si ha alcun controllo di quello che avviene in camera”; che Vargas Llosa ha giustamente definito, visitando una Biennale di Venezia, la “terribile orfanità di idee”, di culture (…) di abilità artigianale, di autenticità e di integrità che caratterizza buona parte dell’attività artistica. Diciamolo francamente: la mostrificazione è uno specchio di una barbarie generalizzata, di una caduta epocale nel livellamento e che ci ricordano a cosa siamo, e ci hanno voluto, ridurre. Con pretese di elitarismo, politicamente corretto ed effimero elevati a religione mondana, in un sociologismo di massima che accompagna tali riti che più che illustrare o penetrare, scavano nelle tenebre, spettacolarizzando nell’eccentrico che si ripete monotono, anche nella ricerca delle “novità” dell’orrido e del transumano.
Marc Fumaroli ha parlato dall’artwordl come di “una setta quasi scientologica”, con i loro mercanti, templi, gallerie e riti, le istallazioni e “le prodezze trasgressive, le processioni le ArtParades, il clero, i plastificatori e parrocchiani, i ricchi collezionisti debitamente «fidelizzati» (… ) un’entità fiduciaria, concepita, promossa e consumata da un ristretto club mondiale (…) asservita alla pubblicità e al grande commercio di lusso (…) dispone di abili cacciatori di teste «artistiche», le quali agiscono di proprio conto o vengono impiegate (…) dalle grandi compagnie di vendita e dai titolari di importanti gallerie”.
Jean Clair ha parlato ancora di “una strana oligarchia finanziaria mondializzata”. Robert Hughes stigmatizza, poi, il mondo – non sempre limpido e disinteressato – dei collezionisti, che sono consapevoli “vittime di estrema feticizzazione” e tendono a usare l’arte come mero strumento di investimento finanziario, capace di produrre «plusvalenze sensazionali».
Gli artisti, dice Hughes, sono privi di ideali e rincorrono a stratagemmi, autolegittimazioni, virtuosismi che proteggono dal “tedioso spettacolo dell’inettitudine”, pedine complici, insomma, di una “disgustosa partita giocata dai ricchi e dagli ignoranti per accrescere il proprio potere e il proprio prestigio; un’attività deprecabile, ma fruttuosa”.
Siamo in presenza, come sostiene Eric Hobsbwn, di “una nuova post-arte” con “flussi variabili di azioni (…) che sono per natura effimere, sebbene possano lasciare documenti permanenti grazie alla tecnologia”, dove “è impossibile distinguere tra i sentimenti che si sono sviluppati dentro di noi e quelli che sono stati introdotti dall’esterno”; forme, immagini, suoni, azioni “non prodotti o distribuiti per alcun altro scopo che quello di gonfiare le vendite in una società di consumo di massa”. Solo il contesto museale in una grande esposizione, aggiunge Hughes, può far ritenere che la nuova arte “talmente malfatta”, possa suggerire “intenti estetici”, in realtà essi sono inadeguati o il più delle volte palesemente assenti, con testi di accompagnamento che non informano né svelano mezzi e contesti ideologizzanti, aformativi e inadeguati comunque, se non al trionfo del narcisismo retorico degli attori tutti in scena: curatori, operatori, sponsor, artisti. Ha scritto a proposito Claudio Magris: “Se si ignorassero gli autori delle opere, il giudizio critico sarebbe molto più libero e oggettivo, non vincolato da riguardi né da condizionamenti precedenti; anche un genio può scrivere cose insignificanti (…), ma se sappiamo che tale pagina o tale opera è di un genio siamo forzati ad attribuire loro significati in realtà inesistenti”.
La critica dovrebbe forse esercitare il mestiere per cui è nata seriamente, senza paura delle consorterie mafiose che si autotutelano nel mondo dell’arte (letteratura compresa), incapaci di “stroncature” alla Papini o alla Mignosi.
Per gallerie e musei, con annessi e connessi, scrive Tomaso Montanari, “l’obiettivo non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione, il metodo non è la mercificazione, ma la ricerca, il destinatario non è un cliente, ma un cittadino”. La contaminazione, così applaudita e ricercata come un Graal, nei musei che hanno tanto da raccontare (e che tanto di arte autentica possiedono negli scantinati), fra classico e codificato e linguaggi artistici messi insieme, in relazione (solo muta): è un’altra imperante moda sconsiderata e tuttavia ritenuta avanguardia necessaria del disidentico. Da quarant’anni la stessa “operazione nuova”, il novum a tutti i costi (nella duplice accezione). Che non significa sia chiaro, affatto, voler mummificare l’esistente, ma è come inserire un brano di Sciarrino nella Nona di Beethoven. Chi ha gusto per l’uno è libero di trovare l’auditorium che lo propone, liberi gli altri di scegliere un altro teatro.
Ancora Montanari puntualizza la linea in cui ridisegnare il rapporto classicità – contemporaneità: “Ove, per classicità, si intende non un’immobile e inattingibile galleria di figure eterne da contemplare e di motivi da replicare, ma una miniera di categorie (bellezza, perfezione, misura, simmetria, armonia) da reinterpretare in un’ottica moderna. Non un luogo statico, intangibile, ma un patrimonio necessario. Classico non significa di altri tempi, ma di sempre (…) D’altronde, soprattutto nelle epoche di disagi, di crisi e di inquietudini (come la nostra), si avverte il bisogno di rivolgerci ai classici. Che custodiscono la vita interiore dell’umanità; rappresentano una riserva di consapevolezza, servono per riempire abissi e voragini. Non sono vicini a noi; siamo noi che dobbiamo entrare nella loro orbita, diventando loro contemporanei”.
Una domanda: è moderno e contemporaneo che riecheggia chiaramente i graffiti primordiali di Altamira e dell’Addaura o chi li concepì come segno – e chi può escluderlo, come elaborato di un concetto? – milioni di anni fa.
La triste realtà è che siamo circondati da tardi copisti o di reduci di avanguardie centenarie. Meglio i simboli e i segni millenari.
L’ideazione e la potenza creatrice sono appannaggio di pochi e, infatti, dice Clair, “la proliferazione della paccottiglia dell’arte contemporanea che oggi invade perfino i castelli di Versailles e i palazzi di Venezia sta alla modernità della via del tramonto come l’iconografia sulpiziana stava al cristianesimo moribondo”.
La modernità non si evolve e si rinnega, però, nella c.d. postmodernità, quanto nella ipermodernità, che la continua e l’aggrava.
Come avviene nei centri storici dove si impiantano o collocano opere contemporanee gettate lì sembra per caso (ultimo esempio il Planum Ecclesiae della cattedrale di Palermo, “arricchito” da due sculture decontestualizzate, senza alcuna relazione simbolica e formale, fra il silenzio assordante dei “critici” dell’Italia loro e del salviamoci noi. Un fronteggiamento francamente disarmonico, così come è il trasferire un Leonardo da Vinci ad una Biennale. E le gabellano, tali operazioni, giustamente, come un segno dei tempi della contemporaneità. Pessima.) Aggiunge Montanari che a proposito di talune operazioni fiorentine anche “in questi dozzinalissimi crossover il famoso «dialogo» non può che essere formale, visivo, in ogni caso percepibile attraverso la vista (…) Allora la domanda è: chi è davvero conservatore? Chi usa Firenze come una quinta monumentale buona a legittimare «la qualunque» o chi denuncia il parassitismo culturale, il vero e proprio sciacallaggio intellettuale, di questa stanchissima messa a reddito di un celebratissimo centro storico? (…) La risposta è purtroppo evidente, così come è evidente che nessun danno è arrecato al passato. E’ invece il disastro del presente che fa sanguinare il cuore”. Ciò vale per altri luoghi simbolici usati come scenari da Pompei a Venezia, da Roma al Palazzo Reale di Palermo, in prestito come location di un set. Tale operazioni andrebbero, invece, tentate nelle squallide periferie semmai per tentare (non so fino a che punto) di inserire pezzi di contemporaneità nel tessuto urbano. Il rischio è che anche nel lugubre scenario di consumatori sovietizzanti, la gente non capirebbe.
In questo scenario di rottamatori e incursori smidollati e incolti, ci si arrovella nell’assedio del presente (Claudio Giunta) che si ripete, nella dittatura narcisista del presente (Tomaso Montanari), come pure la definitiva Pasolini, scandita di graffitari che insudiciano ciò che non gli appartiene.
In nome del paradigma dell’inclusione indiscriminata, si negano i diritti a chi vuole pulizia, tutela e decoro; in nome della demagogia buonista, ad esempio, si ghettizzano orde di giovinastri che avrebbero bisogno di ben altra cura, penalizzando, ad esempio nella scuola, chi vorrebbe studiare e non vivere nel terrore. Un paradigma, ancora falso, dell’idea, falsa anch’essa, di eguaglianza e democrazia concepita a senso unico. Sì, perché esisterà pure il diritto alla normalità, non solo alla trasgressione ideologizzata, come un falso umanitarismo da esibire come trofeo. Infatti, non si educa più nè si pensa minimamente di educare, al massimo si informa l’utenza e si posteggiano i lavoratori depressi e incapaci di mantenere uno straccio di ordine civile, per paura di ritorsioni del grande fratello che tutto giudica e vede e che, inesorabilmente, colpisce chi crede di poter fare cultura.
Tutto diventa sulfureo, superfluo, scontato e l’arte stessa di oggi, come osserva Edgar Wind, “non fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte diventa una splendida superfinalità”. La menzogna globale elevata a sistema di pensiero unico per cui è sacrosanto salvare almeno il proprio gusto e le proprie idee oltre che indignarsi.
Riconoscendo, con Gaetano Salvemini, quel che anche noi, modestamente, andiamo da tempo sostenendo: “Resistete in silenzio, attendete, non fate inutili gesti, badate a salvare l’anima”. Vale a dire salvare la fragile bellezza sempre in pericolo di attacco barbarico di talebani, anche nostrani, che distruggono, sorretti da politici incapaci. È la perdita dell’universale valore nel particolare ludico interesse, di vandali senza memoria, che ritengono un lusso superfluo la bellezza. Un cupio dissolvi.
Lasciamo all’ironia geniale di un grande, scrittore, Ennio Flaiano, una fotografia letteraria d’Autore, anche se datata per difetto di conoscenza dello scarto odierno, di questo “cimitero della bellezza” che rischia di franarci intorno: “Sono costretto a esporle una mia teoria. Questa: che da parecchi anni, l’Italia è invasa da un barbaro autoctono. Si tratta di un’invasione all’interno. Sì, questo barbaro assedia la città dall’interno delle mura. Chiamatelo come volete, provinciale, neoricco, cafone, per me resta un barbaro. Io credo che certe cose si spiegano non soltanto con lo sviluppo della popolazione, ma con la metempsicosi, con la trasmigrazione delle anime, con qualche diavoleria. Chissà da dove vengono, è probabile che ce li mandi un altro pianeta. Non escludiamolo. Comunque, sono italiani anche loro, non si distinguono, all’apparenza, degli italiani veri, come me e come lei. Si distinguono da ciò che fanno (…). E’ molto difficile combatterli, prima di tutto perché sono in tanti e si nascondono anche nei posti di maggiore responsabilità e poi – questa è forse la ragione principale – perché sanno che cosa vogliono. Vogliono “il nuovo”. Appena possono distruggono tutto ciò che stimano vecchio per fare posto al nuovo, adorano il nuovo in tutte le sue forme e manifestazioni. La verità è che, come tutti i barbari, aspirano a diventare civili, ma hanno un’idea tutta particolare della civiltà. Per esempio, si vergognano delle nostre antiche città, delle strade strette, delle vecchie mura, del vecchio risparmio, si vergognano dei loro nomi e perfino dei loro alberi. Il loro sogno è di essere altrove. Guardi i nomi che mettono ai loro caffè: questo punto si chiama New Orleans, quell’altro Brodway, quella trattoria California, quel negozio Piccadilly. Badi bene, questi barbari non sono sprovvisti di ingegno naturale nè di senso economico. Con le loro distruzioni non ci rimettono mai e se lei, per fermarli, invoca la storia e la cultura, sono tanto abili da invocare – che so? - il traffico o l’igiene… Si stanca presto a vedere le stesse cose o gli stessi momenti, che al suo spirito non dicono niente. La sua opaca immaginazione ha sempre bisogno di nuovi stimoli, ha provato mai a lasciare dei bambini soli in un salotto? Per il bene che vada cambiano posto ai mobili e rompono qualche vaso. Il suo modello è una specie di America, così egli pensa sia l’America. Non ha, essendo barbaro, il gusto della conservazione, ma il genio dell’inaugurazione. Lascia dunque cadere in rovina le cose per poi giustificarne la distruzione…Perché? Perché nel suo inconscio il barbaro vorrebbe andarsene, trasferirsi lasciare un Paese che giudica vecchio, un museo. Soltanto da noi la parola museo viene usata in tono spregiativo”. (Ennio Flaiano, Il viaggiatore scontento, in “Il Corriere della Sera”, 23 Ottobre 1966).
Un apologo, che ha tutti i crismi della profezia del presente che ha superato la fantasiosa e fervida penna di Flaiano.
Quei barbari costruttori hanno saputo ben distruggere, costruendo l’effimero nulla in cemento, cartapesta e coriandoli.

Tommaso Romano