venerdì 25 agosto 2017

Dall'orinatoio di Duchamp al cesso d'oro di Cattelan. Un secolo di pseudo Arte nella Lucida Analisi di Francesco Bonami

di Tommaso Romano

Leggo da quando ho imparato a leggere: libri decisivi, saggi fondanti, poesie sublimi, critica e scienze umane variamente assortite. Senza esagerare e senza falsa umiltà esibita come una onorificenza, sono diverse migliaia i volumi che accarezzo, divoro, essi mi lasciano insonne; o che invece abbandono, quasi mai tornandovi, dopo poche pagine, che trovo a volte inutili altre ripugnanti. È la storia del libro e della cultura, più vastamente intesa.
Al mestiere di lettore, che è piacere e a volte sofferenza anche fisica, da gran tempo, autarchicamente come è mio costume e con delle stelle polari di riferimento che si chiamano – nel campo suddetto – Piero Gobetti, Leo Longanesi, Giovanni Volpe e Vanni Scheiwiller, produco molti libri miei e di molti altri, fogli, riviste di due soli numeri o antiche di trent’anni e viventi.
A qualcuno è nota la mia dedizione alla causa dell’arte. Con innamoramenti mai rinnegati (il Futurismo) ma superati nell’ideologia, e con una pratica pittorica durata lo spazio di un mattino e invece una lunga coerenza nell’approfondimento dell’Estetica e delle estetiche di tutti i tempi. A tal punto da laurearmi con una tesi di Estetica dal titolo Dell’oggettività e della sua problematica nell’estetica di oggi, relatore il professore e poi amico Filippo Puglisi e correlatore uno scandalizzato e molto sinistro Claudio Vincentini, che ha poi scalato l’hit parade di storia dell’arte e di estetica, al contrario dell’autore del Bello in Manzoni, ovviamente dimenticato dai più. Eravamo nel dicembre 1976 e da cinque anni avevo già fondato le Edizioni Thule che, appunto, sostenevano e sostengono l’oggettività di contro all’idea perniciosa che il giudizio della mia vicina di casa, pur rispettabile, possa essere inappellabile, dato che è bello ciò che piace, e guai a dire – come faccio, solitario, da allora – che un Michelangelo non è certo un Pistoteletto qualsiasi.
E, siccome chi adesso scrive è colui che pensa le cose proprie che scrive (se no, cambi mestiere o ti robottizzi definitivamente, copiando le scempiaggini di contemporanei come oro colato di effettiva banalità elevate a gusto e ideologia perversa), il sottoscritto – forse non molti ne hanno approfondito molto tale aspetto, rispetto alla messe che pure ho raccolto su molto altro – con distillati ma costanti interventi, ha sempre sostenuto (e quando ha potuto l’ha anche messo in pratica con esempi, linee di poetica e polemiche), che l’ultima tradizione vivente di arte-vita, sia stata il Futurismo, fino ai suoi tardi epigoni; più o meno, con alcuni artisti – parlo di arti una volta definite figurative – che variamente, salvo oltre i menzionati futuristi, nell’ultimo secolo di falsità e sconcezze, hanno resistito: Dalì, Carrà, Soffici, Picasso, Hopper, Munch, Mambor, De Chirico, Gaudì, naturalmente discernendo genialità, creatività, da nichilismo e provocazione, fra questi stessi artisti e pochi altri. Un catalogo scarno, a cui aggiungere pittori onesti, che sanno cos’è arte e mestiere e non ripetitori ottusi di modi altrui, fasi avanguardisti concettuali dei miei stivali, trasgressori nell’ovvio.
Meteore, fuochi fatui direbbe Drieu la Rochelle, campioni della falsificazione di insulse istallazioni tanto temporanee quanto il loro concettuale cogitare.
Si sarà capito il mio disgusto antico e il mio dissenso sempre più radicale.
Tuttavia, io non ho mai scritto né pensato che l’arte debba essere ripetizione acritica di modelli classici. Ogni stagione, ogni ciclo va chiaramente inteso, ha le sue caratteristiche, il suo stile, la sua forma, il suo, a volte discutibile, linguaggio. Dall’orinatoio capovolto (1917) di Duchamp ad oggi, un secolo, fra musei, collezioni e collezionisti, fruitori, che cercano un senso (e non lo trovano quasi mai se non per divertito o sbigottito stupore e allora il senso è relativo a questo), ci consegnano una babele senza incanti ed emozioni interne, biblioteche scritte da critici e storici dell’arte che si autocitano e autoesaltano a vicenda, fra un pubblico smarrito che vaga tra Moma, Documenta e Biennali e che ha paura fisica e intellettuale, di dire che gli abiti nuovi del granduca non sono che illusioni, una sfilata di nullità elevata a potenza, e che il granduca stesso è in mutande, al massimo travestito da clown in sfilata progressista e libertaria.
I pochi e buoni Maestri di estetica che ho eletto come tali perché tali sono, di questo secolo che si conclude non in gloria (da Mignosi ad alcune pagine di Croce, a Maritain, da Attilio Mordini al sommo Hans Sedlmayr a Rosario Assunto, da Roger Scruton a Jean Clair), insieme a pochi studiosi armati resistenti (Stefano Zecchi, Sigfrido Bartolini, Luca Beatrice, Vittorio Sgarbi, Aldo Gerbino, Carlo Fabrizio Carli, Antonio Paolucci, il gruppo fiorentino de “Il Covile” per restare in Italia), fuori da mafie, consorterie e premiopoli miliardarie, nonché da aste combinate per far lievitare quotazioni, studiosi i quali continuano a sostenere il principio che la bellezza non è un buon sentimento nostalgico o spesso di pessimo gusto pseudoumanitario, non è il tramonto spengleriano, il culto delle rovine di un passato da ammirare, sapendo che solo scimmiottandolo in realtà lo si deride e lo si annulla. Perché è la bellezza, difficile a dire e pronunziarla questa totalità di parola, che include i postulati di sempre: buono, giusto, equo, luce, verità.
La bellezza è infatti ricerca inesausta di una perfezione. Il brutto è quindi il suo contrario e cioè il senso del provvisorio (ben diverso dell’attimo), lo sciatto, il seriale con variazioni impercettibili, in sostanza il vuoto di idee gabellate come alta concettualità.
Poco importa, almeno a chi scrive, che le file degli ebeti votati al loro stesso nulla fanno la fila per gli eventi, fra padiglioni che sembrano fiere zoologiche (scusandomi con gli animali, assai più creativi di tanti “artisti”).
Quello che affermo l’ho quindi pure teorizzato (cfr. Manifesto di Thule, 1985), anche partendo da quella mia fuoribonda e giovanile tesi di laurea ricordata, che costò fatica da difendere a professori in commissione, del calibro di Giulio Bonafede e Bruna Fazio Allmayer. Cose e tesi che poi ho ribadito, nei miei scritti e insegnando lettere e poi filosofia e scienze umane e negli anni che ho trascorsi quale docente a contratto, insegnando grazie a Francesco Gallo, Estetica all’Accademia di Belle Arti di Palermo e pure, per decenni, Scienza della Comunicazione all’Istituto Superiore di Giornalismo.
Non mi scuso – come si usa – del “cappello” (c’è sempre un “cappello” caro Antonino Scarlata) rivendicazionista e forse molto (troppo?) autobiografico, perché appunto noi raccontiamo, o dovremmo raccontare, ciò che siamo stati e siamo ed io, credo, di essermi meritato – con eccezioni che mi consolano il cuore – l’orgoglioso isolamento in cui beatamente mi ritrovo.
Allora. Alle quattro del mattino di un fine luglio, termino dopo ore dedicate il giorno precedente, un breve ma succosissimo volume di Francesco Bonami: L’arte nel cesso. Da Duchamp a Cattelan, ascesa e declino dell’arte contemporanea (Mondadori, 2017), che sviluppa con la frusta e senza infingimenti, quanto già coraggiosamente aveva peraltro avuto modo di indicare nei suoi libri precedenti, pur essi nodali: Lo potevo fare anch’io; Dopotutto non è brutto; Si crede Picasso, Maurizio Cattelan. Autobiografia non autorizzata.
Confesso di essermi sentito in buona e chiarificante compagnia con quest’ultimo testo di Bonami che, si vedrà dalle numerose citazioni, pur non essendo per nulla un reazionario e nemmeno un teorico e sostenitore dell’Arte Perenne (come lo sono io, secondo la definizione che volle darmi l’eclettico e complesso Amico Francesco Carbone, onesto e rigoroso teorico dell’altra sponda estetico-critica e che molto piacque, confermandola, a Fortunato Pasqualino), è semmai un libro che posso indicare come una di quelle salutari svolte, da salutare con un quasi giovanile entusiasmo. Lo paragono ai toni sulla musica odierna sostenuti con estrosa genialità, e da me egualmente segnalati, di un Paolo Isotta. Non entro qui nel ginepraio della moderna architettura e urbanistica.
Bonami è da premettere, un protagonista, è noto, stimato ed egualmente contestato dai suoi non pochi oppositori. E ciò lo pone a noi subito in simpatia. Egli ha curato mostre importanti nel mondo, ed è pure ascoltato opinionista.
Ma il libro in questione è fortunatamente duro, non è artificioso e meno che meno ruffiano, di questo fiorentin fuggiasco naturalizzato americano. Esso è ricco di stroncature vitali e di bonametelici dubbi.
Bonami, appunto, data un secolo esatto a partire dall’orinale di Duchamp fino ad arrivare al cesso d’oro di Maurizio Cattelan, il Contemporaneo, tempo in cui “si andava in galleria a guardare una tela tagliata, ad ammirare dei cavalli vivi in un garage che si chiamava l’Attico tanto per confondere le acque, a vedere gente che firmava le persone, a osservare individui rotolarsi per terra, un tizio pare il cane e mordere i visitatori (…) Duchamp sostituisce alla semplice realizzazione dell’oggetto l’idea. Non inventa l’orinale ma ha l’idea di rovesciarlo e pure firmarlo, e persino il coraggio di esporlo. Da quel momento la storia dell’arte contemporanea è stata una gara a chi aveva l’idea migliore o più stravolgente o magari rivoluzionaria o provocatoria. Addirittura si arriva a mostrare solo l’idea o niente (…). Da Duchamp in poi l’arte diventa un dominio, un’idea ne produce un’altra che ne produce un’altra ancora, fino appunto alla fine delle idee. Il «cesso d’oro» è la dimostrazione quasi scientifica che le idee finiscono come l’acqua o il petrolio o come il caffè a casa propria. Finché le idee aiutano a creare cose e immagini è un conto, ma se servono solo a generare altre idee la faccenda si fa complicata. Come se un rigore in una partita provocasse un altro rigore e poi ancora un altro all’infinito, senza che nessuno però riesca mai a segnare questo benedetto gol. Così è stato per l’arte contemporanea”. Ottima premessa questa di Bonami, che si conclude efficacemente così: “L’orinatoio di Duchamp si sa cos’è e nessuno vuol fare un viaggio apposta per vederlo. Invece Las Meninas di Velazquez, Guernica di Picasso, La morte di Marat di David, Oktober 1977, il ciclo di quadri sulla morte di un gruppo di terroristi tedeschi di Ricther, il Rabbit specchiante di Koons o il Puppy di fiori si rivogliono andare a vedere e a rivedere”.
A parte il gusto (questo sì è personale) per alcuni artisti citati che continuano a non essere in prima fila per me, rispetto ad altri che invece includerei, resta il fuoco dirimente fra la creazione che produce e la più concettuosa idea che minimalizza fin quasi all’estensione la produzione dell’opera stessa. Dalla merda d’artista di Piero Manzoni sempre disgusto è. E, infatti, nella non statica dimensione del reale Bonami sottolinea che “l’arte deve sempre rappresentare una qualche trasformazione anche impercettibile della realtà. Non importa chi produce questa trasformazione. Importa chi la crea. Il talento manuale non è così importante. Quale strumento produca l’opera d’arte finale è indifferente. Le mani, il pennello, lo scalpello, la macchina fotografica, il computer, il laser. Non è che se Michelangelo avesse scolpito il David con le unghie sarebbe stato più bravo che se lo avesse fatto con lo scalpello. Oggi se un’artista usa delle tecnologie sofisticatissime non è che è meno bravo. Ma se la tecnologia non produce trasformazione la creazione è inutile e diventa solo appropriazione, che è sì stato un piccolo capitolo dell’arte contemporanea dalla fine degli anni Ottanta, ma non è andata molto lontano proprio perché non presentava allo spettatore nessun punto di vista diverso della realtà, gliela serviva proprio com’era, come se in un ristorante vi servissero un fungo ancora sporco di terra. Una volta magari per curiosità uno lo mangia, ma una seconda volta non ci casca. Così è stato per l’arte «appropriazionista». Il mondo è lì a portata di mano, basta prenderlo e usarlo, ma la creazione artistica è un’altra cosa. L’arte deve saper cucinare il mondo, se no il mondo non sa di nulla”. Metafore di gusto e disgusto, che ci introducono all’arte detta concettuale. Quanti guasti, di passata dirò, ho provocato e provoca Renè Descartes, detto, orecchiato e conosciuto come Cartesio. Bonami, offre un catalogo della falsificazione e io lo condivido, ovviamente per difetto, dovendo invero aggiungere, per esempio, la schiera di artisti del disidentico, gli alfieri proposti da un Bonito Oliva (1997), che mi toccò ospitare, perché mostra già deliberata dai precedenti “progressisti”, al palermitano Loggiato di San Bartolomeo, in un interregno, fra i miei tanti. Citiamoli, almeno, alcuni di questi “campioni” finalmente e sanamente dissacrati e fatti scendere dal piedistallo (precario, come le loro creazioni): Ronald Ryman, Donald Judd, Carlo Cracco, Joseph Kosuth, Michael Asher, Simon Starling, Martin Greed, Mary Kelly, Helen Marte, Charles Oller, Tomas Saraceno, On Kawara, l’elenco è lungo quanto questa lunga contemporaneità che è figlia diretta e diletta di una modernità che non si è affatto conclusa nella pretesa post-modernità. Ecco alcune fulminanti considerazioni del nostro Bonami: “L’artista progettuale suggerisce cosa uno doveva dare o cercare nella sua opera mentre l’artista oggettivo, diciamo, è quello che mostra e se è bravo stimola automaticamente la curiosità dello spettatore, mentre se è una chiavica lo spettatore tirerà dritto senza batter ciglio”. (Mi si perdoni ancora l’ardire e l’immodestia, ma chi scrive queste note, sull’oggettività tali considerazioni le faceva già nel 1976…!). Torniamo però a Bonami (certo ignaro di un intellettuale operante ai confini dell’impero del politicamente corretto, che invero impone la sua dittatura e perciò assolvo il Bonami perché il fatto, pur sussistendo, non poteva che essergli ignoto), il quale continua a deliziarci con rara efficacia: “Insomma l’arte è diventata uno strumento per dar voce alle proprie lamentele o magagne quotidiane, che potrebbero essere anche una bella cosa, se però si volesse fare almeno lo sforzo di esprimere le suddette magagne e lamentele con un disegnino, una canzoncina, un pezzettino di carta tagliata con le forbici. No! Non se ne parla neppure. All’arte son sufficienti per esprimere le semplici cose della vita. Tipo tutti quegli scontrini della lavanderia automatica raccolti in un anno e mostrati in rigido ordine cronologico sulle pareti di una galleria o, fatto ancor più grave, avendo il visitatore sborsato denaro per un biglietto, sulle pareti di un museo. L’artista non ha più voglia di sintetizzare in un oggetto vagamente comprensibile il suo fare e il suo dire. Sfacciatamente fa una cosa – attaccare sul muro con lo scotch la ricetta del medico – e poi dice da qualche parte, in un comunicato stampa o magari coraggiosamente a voce, quello che ha fatto e perché. Ma questa metodologia, per quanto rigorosa possa essere, non è arte, è presa per i marroni. Per quanto oscuro possa essere, il gesto artistico e il suo risultato devono avere una loro unità. Posso anche guardare uno scontrino ma in questo scontrino deve accadere qualcosa che è diverso o di più della sola data e dal totale della spesa sostenuta con chissà quali sacrifici da parte dal coglionissimo autore”.
Le poche voci interne ed esterne (vivaddio il pubblico dovrà pur contare rispetto ai paludati critici autorefenziali) al mondo dell’arte dissenzienti, sono chiaramente confinate nell’oblio, iscritti d’ufficio fra la schiera dei reazionari che nulla comprendono. Eppure i mezzucci restano tali, i “trucchi” d’artista, “al di là della motivazione concettuali, culturali, politiche e artistiche, rimangono tali”. Come dire, sottolinea Bonami, il rapporto fra un selfie e l’autoritratto (o il ritratto) nel quale “l’artista scavava sé stesso e la sua anima traducendola di solito in uno sguardo lancinante che paralizzava lo spettatore. Oggi l’intensità dello sguardo è stata sostituita dalla stupidità del sorriso e l’autoritratto stesso è diventato sfondo per il selfismo. Non è un caso che selfie suoni molto come selpych, che vuol dire egoista. Le immagini sono diventate egoiste e questo alla lunga non può che influenzare la produzione artistica”.
Senza ricorrere a romanticismi datati, continuando sull’argomento, Bonami con realismo sottolinea una perdita che è la chiave di volta di una riflessione che pure, appunto sostenendola, ci appartiene: “L’arte è sempre stata frutto dell’egocentrismo dei suoi autori, ma la migliore arte tentava attraverso l’egocentrismo di parlare di cose universali, profonde anche se intime, a volte”.
Mentre Bonami sottende e lascia libertà interpretativa riguardo all’origine e al senso del fare dell’arte, chi scrive si collega esplicitamente, invece e con le innovazione necessarie, al perenne della ragione ideativa che porta l’uomo-attraverso la ri-creazione della parola, del suono, dell’immagine che si manifestano in atto nel compimento dell’opera e non solo nel mostrare il presunto “concetto” – a stupirsi, meravigliarsi della terra e del cosmo e, osservandola, a farne parte come di un frammento del Tutto, che non è certo opera sua. Questa trascendenza, questa consapevolezza d’Infinito porta non a contemplare il proprio ombelico, sordi al mondo, quanto, appunto, alle cose universali, profonde anche se intime, di cui scrive Bonami, che aggiunge: “La forza dell’arte era quella di essere un punto focale, il centro dell’attenzione, ora questo centro siamo noi, senza la ricerca di un senso, dei perché da dove e verso dove: non guardiamo più qualcosa ma ci guardiamo guardare, nel migliore dei casi. Nel peggiore, ci guardiamo dando le spalle al mondo e quindi dando le spalle all’arte”.
Sia ben chiaro, a questo punto nodale del discorso, che l’artista è sempre libero ma nel momento in cui decide di relazionarsi ad altri, al mondo, i suoi “parti” non si possono ritenere arte in una sorta di onanistico hortus conclusus. Può, certo, egli dare i significati che vuole, può non darglieli affatto, ma non pretendere di affermare, e quindi giustificare il proprio nulla se non come una inseminazione sterile, inconcludente farsa che va quindi smascherata come pretesa e albagia. È, perciò, l’allontanamento radicale dall’arte. Non ci si illuda delle fila per entrare nella giungla dei minimalisti e dei concettuali che si espongono o espongono i loro propri panni e scontrini come originali istallazioni geniali. Si fa la fila per vedere maghi ed effetti speciali ed anche per partecipare a riti infimi di massa, a pagare per vedere allo stadio qualcuno che calcia un pallone che, a sua volta, per giocare è pagato quanto un uomo che sgobba onestamente una vita, si fa la fila per applaudire a vuote parole, a canti inconsulti. Non è sintomo questo di vitalità, forse è invece l’espressione di una degradazione del gusto, del senso comune di guardare e immergersi nell’arte come realizzazione di aspirazione, di profondità, di uscita dal puro utilitarismo, dal “quanto vale”. Non è il silenzio del nulla, è il nulla che si silenzia in circoli sempre più chiusi, angusti, autoreferenziali, con pretese di esoterismi in realtà inconsistenti, sostenuti da autodichiarazioni all’anagrafe dell’essere artisti in nome di una vera e propria libertà – tirannia anarchica per la quale, dato che tutti hanno, teoricamente, un quid creativo tutti sono automaticamente artisti (e a questo proposito Bonami cita la tesi di Joseph Beuys, pur a suo modo geniale). L’effetto di tale circo Barnum proprio della vicenda dell’arte che passa per arte e che così viene gabbata e sponsorizzata come tale, e preso in tale vortice” lo spettatore curioso e appassionato diventa insicuro e timoroso di esprimere i propri sentimenti davanti alle opere d’arte”.
L’arte, continua Bonami, “prima di tutto deve parlare a chi guarda. Come se uno andasse a un appuntamento amoroso con una persona per la prima volta e lì trovasse un tizio che pretende di spiegargli chi è quella persona. L’arte è prima di tutto scoperta, e solo in seguito studio e conoscenza”. Tale scoperta, aggiungo io, per quanto valida per il soggetto che scopre – rispettabile in sommo grado – non può però avere la pretesa del giudizio che da individuale pretende di essere universale. L’impostura cartesiana torna con il “penso quindi sono” e come “misura di tutte le cose” di Protagora. Fra pretese assolutizzanti e anestesie globali, un bel ruolo lo detengono i critici e i mass media: questi ultimi, dice efficacemente il Nostro autore, sono in realtà “molto spesso refrattari all’arte contemporanea e ai suoi misteri, non aspettano altro che trovare qualche personaggio fraudolento che si vesta da artista per poterne parlare senza doversi allontanare troppo dalla cronaca e così i cattivi artisti chiacchierati diventano celebrità seppure cerebrolese”. E magari in tal modo si arriva con le truffe spacciate per oro, alla pseudo consacrazione del Guggenheim.
Anche la tecnica e quindi la sua applicazione nella tecnologia, può diventare, nell’ambito dell’arte, tecnolatria dell’immagine falsa, manipolata e fine a se stessa o, ancora, inganno spettacolarizzato in povertà di fantasia, preda di emozioni elementari, transitorie, fragili, che non provocano alcuna effettiva metànoia, al massimo sbigottimento. Osservate la velocità dei visitatori nei musei, il fulmineo loro scorrere davanti alle opere e lo sguardo altrettanto fuggente che ad esse si dedica: una sostanziale non esperienza accompagnata da selfie e da auricolari, che ti vogliono spiegare ciò che spiegabile non è. Esattamente come fanno coloro che spiegano, a loro modo, una poesia, facendola spesso odiare - con un tal “metodo” – a vita. Altro è il senso del penetrare e del compenetrarsi in un’opera; la metamorfosi, l’emozione, la passione che essa provoca ed anche il suo contrario. Che poi si debba studiare e comparare non è solo giusto ma è necessario, intanto per contestualizzare e quindi adeguatamente comprendere stili e gusti. Resta fermo che dipingere o scolpire o comporre alla maniera di è puro, a volte alto, artigianato ripetitivo che non è e non può però diventare arte. Per quanto inattuali nello spirito rispetto al tempo inclemente e al mondo che ci si trova a vivere, non si può pensare ad un sublime decontestualizzato, che è solo ed altro una rispettabile aspirazione intima. Il mondo lo si vive comunque e nel disgusto bisogna combatterlo, oppure decidere di essere spettatori, come diceva la Arendt, non attori. Non si vive ora nel Rinascimento, ma piuttosto nell’inferno di quello che viene ritenuto, a torto, come il migliore dei mondi possibili. Ma la tecnica per quanto straordinaria, non è mai bastata per fare un’artista. Lo snodo è dato dalla consapevolezza nell’inganno virtuale nel banale elevato a potenza, rincretinente dei contemporanei! Bene fa Bonami a non confondere l’arte moderna che inizia l’adorazione del moderno e che inizia con gli Impressionisti con il ricordato orinatoio di Duchamp e con l’arte povera, che diviene inevitabilmente solo povertà di segni, idee, di autentici manufatti: “Se una volta il gesto più radicale era appendere in una galleria una semplice tela bianca, oggi la provocazione più grande sarà la mela stanca, ovvero una mela lasciata su un piatto tanto tempo che finisce per sbucciarsi da sola”.
Il linguaggio critico e spesso insensato dei critici e dei teorici dei “progetti”, è la controprova che bisogna anzitutto diffidare dalle “firme”, la cui autorevolezza è certificata dalla consorteria, dalla setta che annovera altre firme “autorevoli”, che sostengono gli artisti. I quali sovente divengono mediocri scenografi ben sostenuti nelle loro pretese. Job e Cattelan ne sono esempi di sicura evidenza. Perciò, sostiene Bonami, l’arte contemporanea è diventata spesso “una questione di confezione e di presentazione”, sottolineando come “il successo di certa arte, paradossalmente, mette a rischio la sua stessa esistenza e il piacere dell’esperienza”. Godiamo come suono puro insieme, quanto Bonami scrive e che proponiamo di seguito, ben sapendo quante volte specialisti e cultori, amanti e appassionati, curiosi fruitori e noi stessi da sempre affermiamo in solitaria, ed ora con un più forte avallo: “L’arte non può risolvere i problemi del mondo, può forse raccontarli, ma non sfruttarli. Gli artisti che vogliono fare i diplomatici, gli antropologi, gli scienziati o altre occupazioni – se non più serie molto più specifiche di quella artistica – mostrano un’incapacità creativa, cercano di convalidare le proprie opere attraverso attività parallele, portate avanti in modo approssimativo e raffazzonato. Come se un artista decidesse di fare il vigile urbano come opera d’arte: sicuramente qualcuno ne parlerebbe, anche se per poco, ma di certo non sarebbe più un’opera d’arte. Una delle caratteristiche migliori dell’arte è sempre stata quella di essere una cosa abbastanza inutile, un’attività indipendente e autonoma da certe beghe del mondo, una valvola di scarico dove l’individuo può trovare sollievo proprio dalle beghe del mondo. Oggi poi che tutte le beghe del mondo sono a portata di clic, entrare in una galleria o in un museo e ritrovarne la parodia delle tragedie umane, volendo farci credere che un’opera d’arte è utile, è come voler usare un fiore come forchetta per mangiare un piatto di pasta: si rovina il fiore e pure il piatto di pasta”.
L’assemblaggio compulsivo di cose diverse è non raramente effetto di un processo paranoico, spacciato e sostenuto come arte; il semplice fissare una cosa esistente e decontestualizzarla unisce così i celebrati istallatori creativi e concettuali: Peter Fishli e David Weiss, Christopher Woel, Giuseppe Penone, Marina Abramovic e Kevin Nguyen con T.J. Khayatan. Basta poi il posare un occhiale qualunque a mò di scherzo su un pavimento di legno del San Francisco Museum of Modern Art, per catturare morbose attenzioni verso chi sa quali reconditi, misteriosi e sempre concettuali presupposti “d’arte”. Lo stesso vale per le fotocopie ingrandite di Wade Guyton o le scarpe di Prigov, le “creazioni” di Hurs e Parrino e le sbornie della Cina e senza dimenticare il sangue di Hermann Nizsch (di cui non parla però l’autore). In positivo Bonami cita, giustamente, le opere di Charles Ray.
L’esposizione e presentazione fin qui guidata del libro sanamente provocatorio di Francesco Bonami, si chiude con le seguenti espressioni, che riprendiamo, sul destino dell’arte, che dovrebbe essere quello di “farci entrare in una storia, farci iniziare un viaggio senza doversi mai spostare. Ma questo non posso farlo io, non potete farlo voi.  Lo possono fare solo i veri artisti”. Qualche parola ulteriore come chiusa al bel testo, libero e chiaro di Francesco Bonami, proprio a partire dai richiamati veri artisti, che vivono e intendono, non solo emozionalmente, il sentire, il fare arte. Un giudizio che ci distanzia da Bonami è invece quello su Mitoray, ma merita un’altra nota. Diciamo che questi artisti, pur rari e mal compresi nella loro onestà e qualità, operano, lavorano, producono bellezza, a volte ci convincono e ci fanno riflettere; a volte sperare e raramente, sia detto, ci entusiasmano in modo duraturo. Sono spesso sottostimati, in assenza delle luci del varietà che non li illuminano, con le riviste, i media, i critici che agiscono solo in funzione di pubblicità e di mercato e che, peraltro, i “dotti” guardano dell’alto in basso, come a quei sopravvissuti ignari delle magnifiche sorti e progressive che li circondano e perciò appestati, da ghettizzare nel comportamento e nel muro del silenzio. Essi sono, invece, gli eroici militi, spesso ignari e ignorati, di una generosa, autentica resistenza al brutto, al triviale, al banale, al consueto, al conformismo dei falsi anticonformisti, che sono in realtà proni alle mode, integrati alle tendenze imposte nell’arte contemporanea e dei suoi turiferari.
Tornano a farsi imperiose, quindi, oltre all’esame sociologico crudo e alle sottolineature necessarie di un nichilismo odierno informe e sostanzialmente decadente, le prospettive di estetiche fondanti, di idee di bellezza che diventino atto verso produzioni non seriali; ripartire in sostanza da identità non deboli e compromissorie, da un radicamento ideale non ideologistico, ma neppure vagamente spontaneistico, vitalistico o naturalistico. Insomma da una spiritualità libera da legami con la logica del mondo. Tornare all’arte, quindi, non certo al canone prestabilito con tanto lavoro e sudore, con pazienza, nel silenzio e nella meditazione, riscoprendo l’incanto del mito, del simbolo, la verità della luce, la natura, la magia dei colori, le ombre, l’armonia delle forme, con la comprensibilità, con la chiarezza che pacifica e non mortifica l’intelligenza e la sensibilità. Tornare ai postulati non del passato riprodotto acriticamente e neppure alle similfotografie. Ritrovare ed esprimere valore e senso, anche pedagogico, senza crollare nel didascalico o nel falso realismo delle esaltazioni propagandistiche, ben note e strumentalizzate nel recente passato. Naturalmente potremmo indicare tanti artisti che meritano rivalutazioni salutari, attenzione, rispetto, considerazioni critiche ulteriori e da consigliere, con galleristi accorti, al pubblico, agli svagati collezionisti che credono nel vangelo apocrifo di una comunicazione drogata e veicolata verso artisti ed opere espressioni di clan e sette mercantili e di teoretiche pseudo filosofiche. Comunque, per tornare a quanto si diceva, occorre anzitutto dire e sostenere chiaro e forte, che il nulla va evidenziato come tale. È già tanto il potersi confrontare con autori e critici fuori dalle pastoie e liberati dal mercimonio e pertanto rendiamo grazie a un Francesco Bonami, rimandando ad ulteriori linee teoriche, più articolate ed esaustive, e che ci proponiamo come non lieve e ulteriore compito.