giovedì 30 novembre 2017

La Rivoluzione d’Ottobre, il Comunismo come pura attuazione del pensiero di Marx

di Tommaso Romano

I cento anni della presa del potere in Russia di Lenin, la fine dello zarismo e l'uccisione di Nicola II e della famiglia imperiale, la misconosciuta e taciuta resistenza dei "Bianchi" all’Armata Rossa fino al 1922, lo stalinismo e i gulag,l'assassinio di Lev Trockij da parte dei sicari di Stalin i fatti del 1956 e del 1968 (con le repressioni violente di Ungheria e Cecoslovacchia), la guerra fredda e Krusciov, Breznev e Gorbaciov con la Perestrojka, l’implosione dell’URSS e la caduta del muro di Berlino, ci interrogano e non interrogano, se non per le stucchevoli rievocazioni della Rivoluzione, nel silenzio assordante su un centinaio di milioni di morti, prezzo vero di una utopia negativa al potere nel segno del comunismo, dello Stato ateo dichiarato, della delazione elevata a virtù, dei "confortevoli lager", non meno duri di quelli della barbarie nazionalsocialista.
Aveva ragione Edmund Wilson nel suo libro Stazione Finlandia a indicare in Lenin il culmine del pensiero radicale di 150 anni precedenti.
Un processo di idee e alle idee, allora. Che ha in Marx il suo profeta, insieme al suo sostenitore materiale e collaboratore Engels. Ma che ha radici già con l'avvento della Rivoluzione industriale e con l'Idealismo di Hegel, il pensiero ateo e anticristiano di Furbach e, più in fondo, con l'Utopia del mondo nuovo da Moro a Campanella (le cui statue  furono poste davanti al Cremlino) è, se vogliamo, con tutto il processo che caratterizza la nascita e la genesi della gnosi spuria (Ennio Innocenti), l'idea, cioè, di recidere e misconoscere: legami sacri e originari con il cosmo e con il Dio creatore, per l'uomo e la società considerati come assoluti.
Fra i meriti delle mie Edizioni Thule, dal 1971, ascrivo molte opere sul comunismo, su Solzenicyn e il dissenso, sugli effetti dell'ateismo e sulla secolarizzazione in Occidente, sulla resa morale, spirituale degli intellettuali, ma ancor di più ricordo un libretto di poche e dense pagine pubblicato in traduzione italiana (di Paolo Castruccio), risalente al 1978, del maestro del Giusnaturalismo Cattolico spagnolo, Francisco Elias de Tejada (1918-1978), dal titolo Il mito del marxismo, che pubblicai nel 1979. Testo illuminante che dimostra come, confrontandosi con il linguaggio dello stesso Marx e malgrado le scatenate furie del pensatore di Treviri "contro i seminatori di utopie e contro coloro che, ai suoi occhi, ancora erano avvolti dalle nebbie cangianti dei miti", in realtà Marx costruì il più poderoso fra i miti negativi della storia umana, scandagliandosi contro i Saint-Simon, Owen, Fourier, quali creatori irrealistici, portatori di "un senso puramente utopistico", sostenitori di idee antiscientifiche e antiprogressiste, non in linea con il senso della storia: la costruzione, ritenuta ineluttabile, dalla società ugualitaria socialista, contro cui si scaglia nel Manifesto comunista del 1848.
Scrive, a proposito, testualmente Marx che quegli utopisti prima ricordati, erano "alchimisti sociali", digiuni di elaborazioni scientifiche, di scienza sociale, di storia dialetticamente materialista, di non essere cioè "rappresentati degli interessi del proletariato, che nel frattempo era sorto come prodotto storico. Alla pari dei razionalisti - continua Marx - questi tre autori non si propongono di emancipare una determinata classe, bensì tutta l'umanità. E, come costoro, essi pretendono di instaurare il regno della ragione e della giustizia eterna". Una fantastica utopia moralistica, che servirà per denigrare, ideologicamente, i "sognatori" e i "riformisti".
Fu Proudhon invece ad appellare come realmente utopistico il pensiero di Marx e il suo socialismo scientifico che egli fa partire dal Platone della Repubblica fino alla Icarìa di Cabet. Scrive sul tema Proudhon: "La prima cosa che mi mise in guardia contro l'utopia comunista, e di cui i suoi stessi fautori non sospettano, è l'affermazione che la comunità sia una delle categorie dell'economia politica, da questa pretesa scienza che il socialismo ha la missione di combattere, e che io ho qualificato descrizione delle pratiche dei proprietari. Come la proprietà è il monopolio elevato al quadrato così la comunità è l'esaltazione dello Stato, la glorificazione della polizia. E come lo Stato si stabilì, nella quinta epoca, quale reazione contro il monopolio, così pure, nella fase in cui siamo pervenuti, il comunismo si appresta a dare scacco matto alla proprietà. Il comunismo, quindi, riproduce, benché in senso inverso, tutte le contraddizioni dell'economia politica. Il suo segreto consiste nel sostituire all'individuo l'uomo collettivo in tutte le funzioni sociali: produzione, scambio, consumo, educazione e famiglia. E poiché questa nuova evoluzione non concepiva e né risolve nulla, porta fatalmente, come quelle precedenti, all'iniquità e alla miseria. Così, dunque, il destino del socialismo è completamente negativo; l'utopia comunista, uscita dal dato economico dello Stato, è la controprova delle «routine» tipica dei proprietari. Sotto questo punto di vista non difetta d'utilità, e giova alla scienza sociale, come alla filologia giova l’opposizione del nulla al qualcosa. Il socialismo è una logomachia”, una disputa, cioè, sull’uso e il valore delle parole che si basa più sulla parola che sui fatti.
Marx si scaglia, inoltre, contro i filosofi che si "sono limitati a interpretare il mondo in diverse maniere; si tratta ora - dice - di cambiarlo".
Come notò de Tejada, Martin Buber, Schwonke e Jean Servier ascrivono Marx tra gli utopisti, in quanto Marx "profetizzava escatologicamente un paradiso, il paradiso socialista", quale esito di una profezia, come effettivamente capì Popper quando scrisse che "la ricerca economica di Marx è del tutto subordinata alla sua profezia storica". Anche Nicolas Berdjaev scrisse che la profezia di Marx pretendeva di realizzarsi nella storia, in uno spazio e in un tempo determinati e lo stesso percorso fece Rodolfo Mondolfo quando acutamente ebbe a scrivere che "l'emotività positiva riferita al marxismo consiste, nella sua forma più esaltante, nella mitificazione e nell’utopismo. Il marxismo è in tal modo trasformato in una dottrina di salvazione, non meno escatologica per essere intramondana, in un messianismo, in un messaggio profetico che, attraverso un'apocalisse rivoluzionaria, promette la redenzione liberatrice".
La Novità di Marx, aggiunge il de Tejada, è "quella che trasforma Marx in un eccezionale utopista, è il fatto che la sua utopia non è fuori dal mondo, bensì nel mondo; che non è una fantasia, bensì una certezza; che è realtà quasi tangibile, senza detrimenti di illusione o di sogno. Che è, insomma, una utopia, con un «topos» chiaro: l'intera terra; che è un’ucronìa (mancanza o assenza di tempo) con un tempo indubitabile: al termine del processo dialettico delle lotte di classe e forse dopo l'apocalisse della rivoluzione. Utopia ed ucronìa evidenti, perché Marx giunge ad esse prescindendo da alate fantasie, e adoperando il metodo scientifico che assicura il suo materialismo storico. La spiegazione consiste nella novità con cui Marx mette in relazione il razionale col reale, l'idea con la «praxis»", in quanto Marx colloca il pensiero dietro al fatto. Non altro è il significato del materialismo storico rispetto al suo padre e predecessore: l’Idealismo hegeliano. La filosofia è posteriore alla «praxis». Marx rovescia i presupposti dei precedenti movimenti sociali e pone come fondamenti gli schemi dell'economia e nella Deutsche Ideologie, e scriverà infatti: "Il comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistenti in ciò, che esso capovolge il fondamento di tutti i finora esistenti rapporti di produzione e di scambio, e tratta tutti i presupposti naturali per la prima volta coscientemente quali prodotti dell'uomo finora esistente, lo spoglia della sua dignità naturale, e lo sottomette al potere degli individui unificati. La sua impostazione è perciò essenzialmente economica".
Marx è un rivoluzionario nelle idee (nella vita fu un borghese, sostanzialmente), che vede il mutamento totale, violento, radicale della realtà da abbattere con la rivolta proletaria, a costo di lastricare di morti il suo cammino. E la rivoluzione, infatti, "esige perentoriamente l'utopia", che, ancora afferma de Tejada, viene concepita "come qualcosa di sovraumano, perché nel suo fondo più scuro è il rigetto dell'ordine divino che dispose la vita terrena in valle di lagrime, vi è l'aspirazione delirante di creare urgentemente un paradiso quaggiù, affinché l'uomo possa conquistare la felicità per se stesso, senza alcuna necessità di Dio (…) La rivoluzione è la secolarizzazione della felicità, e la sostituzione della rivelazione divina con un mito confezionato dalla ragione umana".
Per Marx il "peccato originale" è il capitalismo che è da abbattere senza se e senza ma: "I comunisti sdegnano di occultare le loro idee e propositi. Essi dichiarano francamente che i loro fini non possono essere raggiunti senza la violenta distruzione dell'intero ordine sociale, quale è esistito finora. Non a torto le classi dominanti tremano dinanzi alla minaccia di una rivoluzione comunista. In questa i proletari non hanno da perdere che le proprie catene. Essi hanno un mondo da guadagnare" (Die Frühschrftene, 560).
Fu questa la molla delle rivoluzioni innescate già nel XIX secolo e perfettamente realizzate nel XX in varie parti del mondo, sotto il pensiero egemone di Marx che, sulla sua scia, profetizzavano il paradiso terreno dell'umanità, una "escatologia paradisiaca della storia", una fede laicissima e atea, che scatenò le élites rivoluzionarie, contagiando masse fino alla rivoluzione finale del 1917, intesa come redenzione, sogno e sole dell'avvenire. Una creazione, disse Roger Garaudy, continua dell'uomo da parte dell'uomo, che affonda negli immortali principii del 1789. Nell'esito politico della Rivoluzione russa "l’intero leninismo altro non ha fatto che soppiantare il concetto sociologico di classe col concetto politico di partito, visione certo estremamente efficace in campo pragmatico" (de Tejada).
La sostituzione dell'individuo all'uomo collettivo in tutte le funzioni sociali, come voleva Marx, si aggiunse al volere imperioso del Partito Comunista al potere in URSS, con il braccio armato di polizia ed esercito che, in nome della dittatura del proletariato, imposero la dittatura delle oligarchie del Partito, elevando il terrore a sistema di governo che produsse cento milioni di morti, gulag, lo sterminio dei Cosacchi, le fosse di Katyn, veri e propri "crimini contro l'umanità", di cui però si ricordano in pochi, non essendovi stato alcun nuovo "tribunale di Norimberga". Del resto, lo sterminio di nobili, proprietari, dissidenti e borghesi indicati come classe da soppiantare era stato già autorevolmente indicato da Marx ed è stato attuato nei paradisi comunisti di Cambogia, Cina, Vietnam ecc.
La "felicità per tutti" fu la tragedia dello sterminio, il carcere, i ritmi forzati della pianificazione economica, con la complicità morale di parti politiche cospicue dell'Occidente, che ancora oggi non ricorda i Bukowski, Zinoviev, Pluse, Sacharov, Sinjavskij, Daniel e soprattutto il lucidissimo Aleksandr Solzenicyn (a cui Piero Vassallo dedicò, con Thule, un saggio esemplare nel 1974), che era nato nel 1918 e che si spense, dopo il Nobel, nel 2008. Solzenicyn scrisse La ruota rossa, dieci volumi di settemila pagine, sconosciute praticamente in Italia, tranne Lenin a Zurigo e Agosto 1914, che come ha testimoniato il figlio Stefan, sono stati la missione di tutta una vita dell’eroico dissidente e autore del fondamentale Una giornata di Ivan Deninovic, ora riedito da Einaudi e di Arcipelago Gulag (Meridiani Mondadori) che si uniscono a un altro testo finale dello scrittore Due secoli insieme, edito a Napoli da Controcorrente.
Scrisse A. Nemzer che "la più grande sofferenza di Solzenicyn era la vittoria della Rivoluzione sulla Russia", da cui derivò poi la lotta culturale e linguistica della Russia, tornata ortodossa, contro la Rivoluzione. Lotta all’infuocata lingua della Rivoluzione, che aveva sovvertito il linguaggio e le categorie stesse della logica, con il suo lessico di odio che l’impoverì notevolmente e tentò con ogni mezzo la standardizzazione con un continuo ricorso alla propaganda, al “realismo” dell’arte, al psichiatrico “linguaggio del cervello”.
Per tali ragioni nel 1990 Solzenicyn pubblicò un Dizionario russo dell'arricchimento linguistico, in cui documentò l'abbandono di uno straordinario lessico per un linguaggio burocratico imposto dal partito comunista.
Nel 1974 accogliendo un Premio, Solzenicyn affermò: "Abbiamo già imparato che l'abbattimento violento degli Stati, i colpi di mano rivoluzionari non aprono la via al radioso avvenire ma a una rovina ancora più grave, un arbitrio e una violenza peggiori di prima. E se pure è destino che nel nostro futuro vi siano rivoluzioni salvifiche, devono essere rivoluzioni morali".
L'egemonia culturale, teorizzata in salsa italiana ed europea da Gramsci, si è realizzata pienamente nella rimozione collettiva dei crimini del comunismo, nel “romanticismo” sessantottesco, nelle rievocazioni, mostre come quella della Fondazione Feltrinelli, che non dedica una parola ai dissidenti e ai Gulag, anche nel testo 1917-2017. Una storia europea chiamata rivoluzione.
È come se si parlasse, oggi, di archeologia, di guerre puniche, riguardo la Rivoluzione d'ottobre; le "burocrazie amministrative del comunismo italiano" scrive Costanzo Preve, filosofo marxiano, si sono riciclate come "personale politico di gestione dell'attuale americanizzazione culturale", nel mondo unipolare.
È stato Robert Conquest che negli anni ‘70 si cominciò a documentare il costo umano dei crimini del comunismo, fino a giungere al famoso Libro nero, per arrivare all'attuale stagnazione del processo veritativo sul comunismo, come prassi politica e ideologia da indagare.
Una "logica" che è pure iscritta nell'ambito delle dinamiche del turbocapitalismo e di cui, in alcune parti, Marx fu pure osservatore acuto, ma, tuttavia, profeta a tutto tondo della tragedia che unisce il comunismo al nazismo alla inumanizzante globalizzazione, fatta di consumatori schiavi del politicamente corretto, della pubblicità, delle illusioni che sono poste come più importanti della realtà.
Leonid Andrew nel 1919 scrisse che bisognava essere dei selvaggi per rimanere impassibili davanti alla condotta disumana dei bolscevichi, che giunse - come scrisse Stefan Zweig - fino alla dimensione mistica del culto di Lenin che con Stalin è il vero, rivoluzionario esecutore del Marx-pensiero, non un degenerato interprete.
Secondo lo storico inglese Peter Burke ogni tentativo di rovesciare un ordine ingiusto finisce per creare uno ugualmente ingiusto. È ciò che avvenne con la strategia attuata della menzogna elevata a sistema, posta in atto dai bolscevichi che, per imporsi nel 1922 sui Bianchi - che non avevano però veri capi né una solida idea alternativa - sudarono non poco, e come poco si sa, non volendolo documentare. Lenin effettivamente riuscì, come diceva, a subordinare la morale alla lotta di classe per approdare al peggior statalismo centralizzato che è, in sostanza, come disse Vassilij Grossman, nient'altro che servaggio.
Ciò che inizio il 9 gennaio 1905 e si concluse nel 1989, è in realtà una parentesi che vede comunistizzato nell'ateismo, nel laicismo e nell’indifferentismo di massa, il sogno propagandato, con anestesie mentali, di una umanità livellata, ora in mano ai potenti della finanza, al posto dei potenti comunisti del partito unico.
Una dinamica totalitaria che continua, una eterogenesi dei fini, direbbe Augusto Del Noce, che non si è fermata alla fine della vecchia "Grande Russia" (che non era affatto una potenza, all'epoca, arretrata come ha dimostrato Boris Mertinov), e che ancora mira con la rivoluzione antropologica in atto, a costruire un ipotetico e irreale paradiso in terra, l’uomo nuovo, come allora i bolscevichi e come lavorano oggi i progressisti illuminati che, esaltando i "mitici" diritti – presunti - individuali, in realtà eliminano la persona e distruggono ciò che resta della civiltà.


Testo integrale dell’intervento svolto all'hotel Federico II per il Rotary Palermo Nord e il Rotary Baia dei Fenici che hanno organizzato l'incontro sul tema "Il destino di una rivoluzione: Ottobre Rosso", il 28 Novembre 2017. Correlatori: Pasquale Hamel, Aurelio Pes e la Presidente del Club Palermo Nord, che ringrazio, Anna Maria Corradini

giovedì 9 novembre 2017

Pubblichiamo la motivazione del Premio "Ignazio Buttitta" conferito a Tommaso Romano

Al professor Tommaso Romano, poeta, saggista, narratore per il diuturno sostegno alla crescita artistica e culturale isolana e l'instancabile lavoro di creazione e ricreazione di immaginari simbolici tradizionali e di elaborazione di orizzonti speculativi tesi alla conoscenza dell'inconoscibile.





Marcello Veneziani, “Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti” (Ed. Marsilio)

VENEZIANI E I SUOI IMPERDONABILI MAESTRI SCONVENIENTI

di Tommaso Romano

Contemporaneamente vengono alla luce due nuovi e robusti volumi di Marcello Veneziani: Tramonti (Giubilei Regnani, Roma, 2017) e Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti (Marsilio, Venezia, 2017), cinquecento pagine, quest'ultimo, che si delibano con voracità ammirata e magari con un “Porto”, a distillare questa sorta di autobiografia intellettuale attraverso una ricognizione - anche memoriale e fatta di incontri personali nodali - su un pianeta di molti alieni ignoti o semisconosciuti alla cultura ufficiale e a quella che gioca all'anticonformismo e che è in realtà solo guardona del mondo come va, dalle trasgressioni modaiole, dalla decadenza dei clown da tragedia de no antri tecnolocratico e totalitario, che ci controlla dalla culla alla bara. In quale potere cancella le intelligenze scomode (come le chiamò per un ciclo RAI, pezzo unico, Giano Accame, fra i giustamente non dimenticati di questo libro), soprattutto del Novecento, anche se Veneziani fonda correttamente la sua genealogia a partire dai Giganti: Dante, Petrarca, Machiavelli, Vico, Leopardi, Schopenauer, Hegel, Dostoevskij, Strirner, Nietzsche, Marx, senza la ridondanza dell’acritico omaggio e senza la filologia dei pedanti, con richiami essenziali e conflittuali rispetto alla sua visione del pensiero e dell’Assoluto, con le chiare ascendenze plotiniane, un Maestro venerato e richiamato da Veneziani, che non poco ha scritto del filosofo eccelso.
Fare l'elenco dei profili inseriti, essenziali e calibrati, è esercizio che non serve all'invito a leggere con lievità e contestuale rigore, tutto il libro, di quelle Ammirate biografie (questo il titolo di un mio libro simile, nell'impostazione a quello di Veneziani, edito nel 2010 da Arianna e in cui sono compresi alcuni fra i pensatori, poeti e figure che ci hanno accompagnato e fatto incontrare con Marcello, che esordì con le mie Edizioni Thule, nel 1977 con La ricerca dell'assoluto in Evola, comune maestro di formazione).
Il libro, non è un catalogo di soli reprobi e introvabili Autori, non è un visto da destra per non dimenticare i fondamenti di una ideale destra, che forse è solo Centodestre (altro titolo di profili biografici edito dall’ISSPE e da me curato nel 2012) o forse un arcipelago di opposti, che ancora ricercano una sintesi per rispondere alla modernità come ideologia e al nulla come prassi esistenziale vigente e che, come dice Antonio Carioti, potrebbero intanto trovarla nella difesa della libertà individuale.
Nel ricco volume di Veneziani, sempre punteggiato e sostenuto da una prosa che ondeggia vitalmente fra il filosofico e il lirico, troviamo infatti Autori che sono certo imprescindibili e non sempre ritenuti "sconvenienti": da Croce a Gramsci e Adorno, da Mounier a Ortega, Gadamer, da Pasolini a Debord, da Wilde a Pavese, Sciascia, Pirandello, Bobbio, Emanuele Severino, Camus, Proust, Borges. Per alcuni di questi è calato l'oblio, si pensi un pontefice come Croce, oltre il manierismo sterile dell'omaggio dovuto, senza però fare i conti con la loro proposta di cultura, con le loro provocazioni, libere e spesso urticanti. Perché questi Autori servono, ha ben ragione Veneziani, come servirebbero ai progressisti dei miei stivali, in realtà ripetitori modesti e monotoni di un sessantottismo che non passa, come il fascismo e l'antifascismo, che De Felice tentò di storicizzare da storico immenso quale fu e che, come tale è ricordato in punta di penna da Veneziani nel libro. La differenza che, infatti, continua con qualche eccezione, a sussistere nella cultura italiana da salotto mediatico, è appunto la rimozione per ignoranza, per partito preso e chiusura mentale.
Quando non se ne può fare a meno, questi Autori si citano, trovando sempre però una tessera di partito o un discorso da demonizzare e da non contestualizzare e soprattutto senza discernere il contingente che passa dal permanente delle idee che rimane, da Heidegger a Schmitt, da Bergson  a Sorel, Pessoa, D’Annunzio, Giovanni Gentile, Kraus, Cioran, Pound, Jouvenel, Rensi, Noventa, Benjamin, Cèline, Mishima, Spengler, tutti al fuoco della controversia, direbbe Luzi, e usciti dalla penna di Veneziani con rinnovato vigore interpretativo.
Non mancano i riferimenti segnavia, quelli che, forgiando, consentono la traversata nel deserto di altri territori, anche se in diaspora è un po' apolidi lo siamo tutti, ormai, per la morte della Patria (Galli della Loggia) e perché esuli nella stessa terra in cui viviamo e di cui ci sentiamo eticamente ed esteticamente estranei, sempre di più.
Pagine di rara intensità concentrate in schizzi d'Autore (penso, sul versante della pittura, ai disegni di Mino Maccari) che ci restituiscono pensieri, parole e opere di autentici esiliati che Veneziani tiene nella sua biblioteca - che ha avuto traversie, in passato - non solo ideale ma sostanziale, esperienziale, sapendo trattenere ciò che conta davvero dei libri, e che i più ritengono invece stantio, pericoloso, reazionario, da imbavagliare e da mettere (se potessero farlo, ma hanno paura di passare per nazisti e inquisitori) al rogo.
Sì, perché Veneziani ci restituisce a tutto tondo filosofi e giornalisti, pensatori postumi nei loro libri, e in quelli voluti mai pubblicare in vita, insieme ad agitatori geniali e appartati conservatori, identitari e anarchici, spiritualisti simbolici, demolitori di luoghi comuni, spesso frequentati, visti o conosciuti dallo stesso autore: Andrea Emo, Rodolfo Quadrelli, Pierre Pascal, Montanelli, Flaiano, Campanile, Panfilo Gentile, Prezzolini, Malaparte, Oriana Fallaci, Papini, Marinetti, Guareschi e Volpe.
Non mancano in questo Almanacco, che in fondo ricapitola la vita di Veneziani, come avventura intellettuale, esperienza, formazione, con incanti e disincanti, l'album dei cari, imprescindibili estinti, dal citato Evola a Jünger, Eliade e Zolla, Guènon e Gomèz Dàvila, Michele Federico Sciacca, Spirito e Del Noce, Thibon, Berto Ricci, insieme a indefinibili e mistici ed esteti veri come Cristina Campo, Pavel Florenskij, Weil, Zambrano, Solgenicyn, Tolkien.
Non manca la spoon river della sponda sbagliata, con nomi e storie cari a un’intera generazione, della quale Veneziani è geniale alfiere come pochissimi, fra questi generosamente tratteggiati con il rasoio di Marcello: Giano Accame e Fausto Gianfranceschi, Enzo Erra, Claudio Quarantotto, Giovanni Volpe e Alfredo Cattabiani, Piero Buscaroli e tante altre ricordate figure, sotto forma di citazioni sparse per tutto il libro. Pochi, e fa bene Veneziani, i lavori in corso che egli esamina di Autori che non svaniranno nel nulla, seppur non sempre condivisibili come ad esempio de Benoist (la cui componente italiana di estimatori, per antiche vicende, non è ricordata nei nomi dei protagonisti).
Lo spessore umano e intellettuale di Veneziani, anche in questo libro, si coglie per intero, come mettendo insieme i frammenti sparsi o le tessere di un mosaico anzitutto della memoria, lui che ha lasciato la Puglia per la capitale, non autoesiliandosi per forza o per ragione, alla periferia dell’impero, come tanti, fra cui chi scrive, modestamente.
Il mosaico, l'affresco di Veneziani è così ampio e variegato perfino nel calarsi dall'universale al particolare, ma va raccolto come una unità sollecitante l'intelligenza, anche nelle esclusioni, che ne avrebbero però appesantito la già non debole mole. Ma è anche un invito a ripensarsi, a partire da se stessi, a comprendere che non tutto è stato vano e che la memoria può affiorare come a irrorare lo scenario nichilistico e che fa il paio con l'indifferenza dei più.
Condivido, infine, quanto su "Libero" (3 novembre 2017) ha scritto Vittorio Feltri di Veneziani: "Ottimo prosatore, uno dei pochi intellettuali che si possono definire tali malgrado sia di destra, per cui detestato dai tromboni di sinistra. Con lui ho lavorato molti anni, lo conosco come le mie tasche. Scrive da Dio cose che non condivido e leggendole spesso cambio idea. D'altronde sono consapevole di non essere d'accordo sempre con le mie opinioni mutevoli".
Le opinioni variano, restano i capisaldi, i riferimenti non effimeri, la fede ai valori per chi ha il dono e la volontà di possederli.
Veneziani merita di essere annoverato fra i nostri maggiori, con la sua ormai assai larga produzione (che aspetta un esegeta all'altezza), di essere ascoltato e con i suoi libri adagiati con cura nelle biblioteche, da consultare spesso. A cominciare, come in realtà avviene, dalla mia che è il mio unico e vero forziere, che mi garantisce la vita che ancora si vive leggendo e scrivendo, avendo già non poco dato, facendo almeno il proprio compito, frutto di una vocazione che ancora, comunque, non tramonta.