venerdì 30 gennaio 2015

DISTILLARE LA PAROLA PER LA VERITA’ DEL LINGUAGGIO

 Una delle peculiari caratteristiche che seguendo la decadenza di un popolo è la perdita della nozione di verità e autenticità del linguaggio.
Ogni affermazione dettata da estemporaneità non è quindi equiparabile – solo perché allegramente e sconsideratamente pronunciata – al retto giudizio, alla meditata riflessione che si fanno parola, all’accogliente calore della limpidezza che le parole possono distillare, alle espressioni che si coniugano ai carichi e prudenti silenzi, a volte tanto eloquenti – se non più – delle stesse parole. L’imbarbarimento è proprio segnato dalla perdita di valore e di chiarezza della propria lingua. Qui, nessuno vuole ripercorrere le orme assai nefaste del Fichte, che scambia la peculiarità della lingua del popolo tedesco come superiorità dello stesso popolo, in quanto presunta lingua originaria, che avrebbe rifiutato nel tempo ogni contaminazione linguistica di altri popoli, fino a terrorizzare la famosa “ missione del detto” come filosofia indispensabile per ogni tedesco. Popolo che, malgrado spostamenti territoriali, non avrebbe intaccato la originaria purezza e saggezza. A logica conclusione di un tale percorso che certo accomunò altri Idealisti e lo stesso Hegel (con Cartesio, Rousseau e Kant già padri della dissoluzione moderna) si giunse alla follia nazista che, oggettivamente, è frutto di una elaborazione, per quanto rozza e talvolta impropria, di tali impostazioni teologico-filosofiche.
Ciò che abbonda nel linguaggio rischia la tracimazione, le parole sono a volte pesanti perché buttate giù come massi, sono espressioni superficiali e spesso prive di senso, atti gratuiti, inutili, a volte allusivi a volte di una banalità senza fondo. Anche la tendenza all’introduzione, nel linguaggio corrente, di parole straniere svilisce la bellezza della lingua, la sua profondità e complessità, verso una neolingua contaminata inutilmente o, peggio, schiava delle nuove forme di comunicazione mediatica, a cui la scuola- primariamente- non dovrebbe affatto subordinarsi, come invece colpevolmente avviene spesso.
Nel Vangelo di Matteo (5,37) si legge e si dovrebbe così in umiltà meditare: “ Ma il vostro parlare sia Sì Sì No No ciò che è in più viene dal maligno”. Non è questa la sede per l’apologia della regola delle concisione, piuttosto l’invito a non disperdere i propri talenti magari per consegnate le famose ”perle ai porci”. La grande epifania del sacro è intraducibile in umane parole e neppure ai grandi Spiriti è sempre concesso potere esprimere la bellezza dello stupore, la bellezza del reale che si tramuta in Ideale. Ancora, leggere e meditare la saggezza, tornare ai classici, riscoprire la perennità della Parola Viva, può anche voler dire che, colui che ha scritto è poco importante, rispetto al prudente contenuto: “ Non voler sapere chi l’ha detto ma poni mente a ciò che è detto” (Imitazione di Cristo).
Stupiscono negativamente le frasi fatte e ripetute, anche da chi in alto loco sta, stupiscono le approssimazioni condite da pseudoantropologia e parodia della filosofia, apparentemente infarcite di buone intenzioni (sappiamo a cosa sfociano le buone intenzioni), di una” misericordia” che si ripete ossessivamente e tanto lontana dalla modestia della Carità che resta ai più invisibile e che pure viene praticata e sperimentata da chi non vuole apparire e molto tiene invece al dono semplice e all’affinamento del proprio essere, verso quel necessario perfezionamento come Qualcuno ci ha indicato dover fare.
“ Ho scritto poco e avrei dovuto scrivere meno” affermava Cristina Campo quasi a significare l’importanza do ogni pur apparentemente semplice parola, detta o scritta.
Intanto mi autolimito anch’io, concludendo così questi spero non invadenti pensieri.

Tommaso Romano


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