venerdì 29 dicembre 2017
mercoledì 13 dicembre 2017
martedì 12 dicembre 2017
Tommaso Romano, "Schegge di Estetica" / 2
L'artista è un
facitore di ponti fra la realtà e il suo essere e manifestarsi idealmente e
fattualmente attraversando le sue opere. Chi sostiene la scissione e
l'autonomia dei linguaggi settoriali dell'arte, ha una visione scissa,
parcellizzata, disorganica della creatività, che deriva da un Dono che
trascende l'artista e che egli stesso può sempre affinare, nella ricerca verso
un continuo perfezionamento. L'arte ha così una sua specificità redimente in
sintonia con la vita ed anche in conflitto se necessario. Tale specificità va
perseguita o praticandola e svolgendola come atto - frutto di visioni,
razionalità, esperienza o sogno - o fruendola come possibilità spirituale ed
estetica. Tuttavia, è sempre a partire dalla natura che apprendiamo il significato
profondo del fare arte, non esclusivamente
come mera ripetizione o imitazione, quanto come ri-creazione che non può non
esprimersi in comunicazioni plausibili, non solo in mero esercizio - tutto da
provare, fra l'altro - concettuale e falsamente minimalista. Ora, davanti allo
svolgersi nichilistico e mercatista della modernità, l'arte si mistifica nella
sua stessa natura e vocazione, perdendo ciò che invece l'aveva sempre
contraddistinto come necessità etica ed estetica di un umanesimo creaturale non
solo orizzontale (ma neppure solo verticalizzato) pragmatismo delle occasioni, né
tantomeno come perseguimento del brutto, eretto a sistema e destino, quasi una
metafora di gnosi spuria del cammino sulla terra, inteso come condanna e solo
dolore. E ciò, appunto, può valere in tutti i dominii in cui l'arte si risolve:
pittura, musica, scultura, parola letteraria e filosofica, fotocinematografia,
considerate, piuttosto, discipline in relazione, dialoganti e in unità
sostanziale, in oltreprassi, in autentica liberazione dell'ovvio.
Senza
un'aspirazione alla trascendenza sul piano spirituale, veicolando e promuovendo
il fondamento che è oggettivo alla bellezza, l'artista che conosce i limiti e
rigetta l'onnipotenza, potrà edificare la sua interiorità e la sua stessa
vocazione prima ad essere e poi ad apparire nel mondano e spesso transeunte
successo. Anche i luoghi possono essere veicoli di simbolicità ulteriore, non
solo per ciò che rappresentano storicamente, quanto per le suggestioni, le
riflessioni, la penetrazione dei significati che essi ci propongono come
riflessione ulteriore all'esserci, sul divenire, sulla libertà e sul nostro
stesso destino.
Affidare il
talento, quindi, non allo sterile narcisismo ma proiettarlo oltre, con rigore,
verso l'infinita perennità cosmica. Tutto ciò è, non solo auspicabile, ma
doveroso compito dell'artista e di coloro che si pongono esteticamente il tema
dell'arte, per ridare - almeno nella propria individuale specificità e scelta
vitale - un senso in grado di poter
umilmente ma fermamente discernere cercando nell'opera l’Immagine, che è lo
splendore del bene, di ciò che è armonico e giusto in mezzo alle barbarie dal
volto disumano e disumanizzante, al laccio della regia egemonica occulta della
tecnofinanza e dello scientismo, che orienta e impone nel mercato gusti,
tendenze, mode.
Sarà questo un
modo non effimero per rendere così testimonianza fattiva e contemplativa, al
contempo, alla bellezza e alla forza del "Disegno intelligente" che è
il Creato, che Dio ci ha consegnato (non solo la terra, ma il cosmo intero) e
che, avendolo in custodia, abbiamo il dovere ma anche il potere di preservare,
se ne saremo all'altezza, degni e capaci, per così affermare - sapendoli
comunicare, trasmettere - i valori, nella sostanza ma anche nella forma, per
non piegarsi alla dittatura dello spirito del tempo che ci è dato vivere.
mercoledì 6 dicembre 2017
Cristina Battocletti, "Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste" (Ed. La nave di Teseo)
di Tommaso Romano
Bobi
(Roberto) Bazlen, Trieste 1902 – Milano 1965, è stata certamente una delle
personalità centrali della cultura del Novecento, specie riguardando le
complesse vicende dell’editoria nazionale, di cui fu scelto protagonista, che
lo portarono con Luciano Foà a fondare la casa editrice Adelphi (1962), oggi
diretto dall’allora giovane sodale, Roberto Calasso.
Il
corposo volume Bobi Bazlen. L’ombra di
Trieste, edito da “La nave di Teseo” (2017, €19,50), se ne occupa con
rigore, grande padronanza e consonanza, Cristina Battocletti, nata a Udine,
caposervizio della “Domenica” del “Sole 24 Ore”, critica cinematografica,
autrice di biografie, racconti e di un romano di largo successo La mantella del diavolo (Bompiani,
2015). Con questo libro su Bazlen, la Battocletti recentemente ha avuto
assegnato a Belpasso, il prestigioso Premio Internazionale “Nino Martoglio”, la
cui Giuria era presieduta da Sarah Zappulla Muscarà.
Molto
indicativa, l’apertura del libro, con una simbolica frase di Bazlen tratta da
una lettera a Stelio Mattioni, del 1964, che traccia e rende un efficace
autoprofilo: “Rinunciare: no; reagire: no; realizzare il prima possibile”.
L’aura
misteriosa in cui è stata avvolta la figura di Bazlen, a cui ha dedicato un
documentario, nel 1983, Aldo Grasso, converge con quella di uno straordinario “annusatore
di libri” dal “suono giusto”. Poliglotta di cultura e formazione, scoprì Italo
Svevo, pubblicò anche Kafka e Robert Musil e cento altri imperdibili.
Ebreo
per parte di madre, evangelico di parte paterna, fu un visionario laico,
amatissimo e detestato, come si conviene agli uomini oltre la soglia della
conformistica mediocrità. Quasi ascetica e certamente leggendaria la sua
intrapresa intellettuale ed editoriale, costellata da incontri plurali: da
Umberto Saba alla Morante, da Montale a Cristina Campo, da Savinio a Adriano
Olivetti, capace anche di suscitare forti antipatie da parte, per esempio, di
Pasolini e Moravia.
Irregolare,
fuori dal coro e dagli schemi sempre, superstizioso e antipratico per
eccellenza, con interessi esoterici e psicanalitici (fu amico e paziente di
Ernest Bernhard), “rabdomante di talenti”, praticò come intima necessità il
nomadismo dei luoghi dove si spostava in continuazione e quello delle idee
plurali, sempre professate in rigorosa libertà e da autentico airone
libertario, anche in amore.
Come
ben nota la Battocletti, “Bazlen disprezzava Ulisse, perché era un piccolo uomo
salvato dall’astuzia minuta e scorretta”, preferendo ai miti greci, quelli
assiro-babilonesi e indù, “per lui l’Occidente era roba da ragionieri. Amava
l’Oriente e il Taoismo, il caso stabilito da certe regole, ammorbidito da certo
disincanto”.
Un
uomo dietro le quinte autore di una
sola opera uscita per altro postuma da Adelphi, lo definisce questa sua
biografa d’eccezione, capace di influenzare e segnare la storia dei grandi
libri e delle idee.
La
Battocletti ci consegna così un testo maiuscolo, che si legge con crescente e
partecipato interesse, attraversato da un’arabescata capacità narrativa che
include la filologia essenziale, mai pedante però, e una esaustiva
bibliografia. Le pagine scorrono sostenute da una sostanza poematica che il
lettore accorto, assaporando questo bel libro, vi troverà sicuramente.
dal n. 93, anno XXXI, Ottobre - Dicembre 2017 di Spiritualità & Letteratura
Tommaso Romano, "Schegge di Estetica" / 1

La
sostanza della forma non consiste solo nella copia del vero ma nel vero che
aspira ad esserlo assertivamente, anche con modalità espressive diversificate, che
hanno l'orizzonte della bellezza nel trascendersi come conoscenza sublime, di
contro al tellurico devastante che, selvaggiamente e in modo bugiardo,
simbolizza la dissolutiva distruzione fine a se stessa, in realtà
annichilendosi.
venerdì 1 dicembre 2017
La mostrificazione dell'arte contemporanea
di Tommaso Romano
Al
decadere delle tradizionali piccole mostre monografiche in gallerie d’arte, che
erano spesso veri e propri spazi simbolici, centri di cultura, con ruoli
essenziali di indicazione, come già nel 1959 aveva previsto Roberto Longhi, si
assiste di converso, ad una ipertrofia di “eventi”, di “ grandi mostre”, in
piccoli e grandi centri, in musei e “contenitori”, con ripetizioni visive e
concettuali veramente deprimenti nel proporre moduli e autori, correnti e
istallazioni in serie, obbedienti al grande circo, al lunapark dell’arte
contemporanea, fatto di pressapochismo, sperpero di denaro, di gigantismo, di cataloghi
e costosi, di banali supporti informatici; un fenomeno definito di “mostrificazioni”,
giustamente, per erudire le masse e
farle partecipare al rito, all’evento imperdibile.
Già
nel 1996, Federico Zeri scriveva di “pleiadi di mostre e mostriciattole, spesso
insignificanti, inutili, a base commerciale e promozionale, sempre costose”, e
Cesare Brandi parlava di un assedio, di una “infestante proliferazione di mostre
– eventi di scarso o nullo valore culturale, votate ad un effimera
spettacolarizzazione fine a se stessa, «vuoti a rendere», che indicano artificialmente
un consumo feticistico, bolle di sapone multicolori che lasciano dietro di sé
praticamente il nulla”.
Chiavi in mano, si
spostano croste e/o capolavori (con grande rischio di deperimento), non certo
per ampliare criticamente la conoscenza dei giovani, e la libertà di ricerca, e
senza adeguate informazioni e supporti di esplicitazioni chiare e scientifiche
(non adoperando linguaggi incomprensibili per pseudo iniziati in cataloghi e
supporti), senza legami con le opere, gli autori e i contesti da cui derivano
le opere stesse. Il successo è dato
dallo sbigliettamento delle folle a Biennali e simili fiere, che non espongono
neppure le discutibili tendenze internazionali, ma i soliti noti con le solite
salse acide rimescolate.
Acutamente,
come sa esserlo sempre, Jean Clair ha sostenuto: “Le folle che accalcano questi
luoghi, assembramenti di persone solitarie non più nuove da una fede comune,
religiosa, sociale o politica (…) hanno trovato nell’arte la loro ultima
avventura collettiva. Scomparsa ogni fede, ci si imbatte invece in uno
smarrimento comune, in una maggiore solitudine”.
Nel
relativismo del tutto lecito e del tutto da esporre/esporsi, annega così la
decifrazione stessa, la comprensione dell’elementare, con l’assenza di stile
autentico. Tutto è amplificato, gonfiato, nell’evento, in realtà banale, nell’appariscenza e inesistenza, come i
loro protagonisti presunti. Tutto resta frutto di calcoli di mercanti e connivenze,
profitti, uso di marchi e loro sfruttamento: “un Picasso” designa nell’immaginario
un’automobile più che un pittore; ancora quantità contro qualità, numero, e
mercificazione che generano come, sosteneva Pound, i cancri della denarolatria,
avarizia, usura, scambiando culturale e arte con spettacolo, marketing ed
economia, comunicazione di massa, “bene” e scambio, rendimento.
Già
nel 1937 Paul Valery pronosticava, - come Spengler, Evola, Guènon e poi Eliot e
Pound e tutta la teologia centrata sull’Apocalisse, - di un età in cui si
sarebbe determinata “una depressione dei valori intellettuali, un abbassamento,
una decadenza paragonabili a quelli (…) registrati alla fine dell’antichità”.
Siamo nell’era avvizzita dell’apparenza e dell’irrealismo, per cui, come diceva
Guy Debord “la realtà sorge nello spettacolo e lo è reale”.
Le
mostre, gli “eventi”, fanno parte di questo penoso reality, tanto che Piero Citati ha giustamente sottolineato: “Non
so quando finirà questa orgia di eventi spettacolari, con cui si cerca invano
di far amare la pittura a un pubblico che non la ama”. E parlava ancora di
pittura, Citati.
Oggi
valgono i sontuosi allestimenti, mostre kolossal,
affidate a firme che nessuno conosce
per attività o progetti, “costosi cenotafi dentro cui riporre quadri e
sculture” (Vincenzo Trione, Contro le
mostre), esibendo come simulacri e ancora Trione “per legittimare questi
teatrini di Disneyland, ci si nasconde dietro la maschera dell’operazione didattica
(…) Nascono così cloni ingigantiti proiettati su schemi e su pareti che invitano
lo spettatore a vivere un’irrepetibile esperienza emozionale, sensoriale,
visiva (…). Il fine nobile di questi show: farci precipitare dentro complesse
composizioni di icone e di colori. In effetti, però, dietro questo alibi
pedagogico c’è solo la furbizia commerciale”.
Una
prostituzione, che ha sedotto musei nati seriamente e oggi ridotti a predatori
di proposte mediocri, anche con l’ausilio di firme, a volte, prestigiose (gli
scarti, le opere peggio riuscite sono patrimonio di ognuno, ma fare la gara
all’accaparramento dell’inedito pessimo, è quantomeno diseducativo).
Tutto
il metro resta allora il successo, i
guadagni, il numero di visitatori.
Oggi
mostre e musei sono troppo spesso “mattatoi culturali”, incapaci di
approfondimenti e proposte, subordinati a “percorsi” prestabiliti, che
somigliano ad una fila al rancio.
Trione
sostiene che bisogna ricominciare “a considerare le opere d’arte non come
comparse di costosi show, ma come magnifici strumenti per interrogarci sulle
nostre inquietudini, sul nostro modo di guardarci il mondo”. Oltre le “ortodossie
interpretative”.
La virtualità che
accompagna le mostre e le grandi rassegne come megastore e fast
food totalizza, con risposta preconfezionata, le eventuali domande di senso. Un
alluvione di dati e immagini ulteriori di puro intrattenimento, che evitano
l’apprendimento e annichiliscono lo sguardo, senza il silenzio necessario di
chi vuole fruire e il rinvio non a cataloghi costosi, ma allo studio, serio,
libero, comparato. Oppure, che non è conoscibile, all’istinto di chi osserva (penso
alle opere emblematiche di un Renato Mambor). Bisogna, insomma, imparare ad autoformarsi,
vista l’assenza di perizia dei maestri o di semplici insegnanti, e concentrarsi
su poche opere, da approfondire e conoscere, non correre per vedere tutto e non
capire quasi nulla.
Questo
sommovimento continuo da una mostra all’altra, alimentato da interessata
pubblicità, da un continente altro, decontestualizzato, mette a rischio le
opere stesse da inevitabili danneggiamenti causati da trasferimenti e
imballaggi.
Naturalmente,
il bello che abbiamo intorno, a cominciare da chiese e palazzi, lo ignoriamo o aspettiamo,
per giungervi, improvvisate e improvvide “vie dei tesori” (è veramente
indicativo il ricorso concettuale ripetuto, al denaro sempre, al “bene”, al “giacimento”,
al “consumo”, all’ “utile”, alla “turistizzazione” della cultura, insomma, come
se l’Eldorado risolutore consistesse in una coda ad una mostra).
Il
ruolo dei cosiddetti critici – che non distinguono estetica da critica e storia
dell’arte, molto spesso – dice Robert Hughes “è sfibrante. E’ un po’ come fare
il pianista in un bordello: non si ha alcun controllo di quello che avviene in camera”;
che Vargas Llosa ha giustamente definito, visitando una Biennale di Venezia, la
“terribile orfanità di idee”, di culture (…) di abilità artigianale, di
autenticità e di integrità che caratterizza buona parte dell’attività
artistica. Diciamolo francamente: la mostrificazione è uno specchio di una barbarie
generalizzata, di una caduta epocale nel livellamento e che ci ricordano a cosa
siamo, e ci hanno voluto, ridurre. Con pretese di elitarismo, politicamente
corretto ed effimero elevati a religione mondana, in un sociologismo di massima
che accompagna tali riti che più che illustrare o penetrare, scavano nelle
tenebre, spettacolarizzando nell’eccentrico che si ripete monotono, anche nella
ricerca delle “novità” dell’orrido e del transumano.
Marc
Fumaroli ha parlato dall’artwordl
come di “una setta quasi scientologica”, con i loro mercanti, templi, gallerie
e riti, le istallazioni e “le prodezze trasgressive, le processioni le ArtParades,
il clero, i plastificatori e parrocchiani, i ricchi collezionisti debitamente «fidelizzati»
(… ) un’entità fiduciaria, concepita, promossa e consumata da un ristretto club
mondiale (…) asservita alla pubblicità e al grande commercio di lusso (…)
dispone di abili cacciatori di teste «artistiche», le quali agiscono di proprio
conto o vengono impiegate (…) dalle grandi compagnie di vendita e dai titolari
di importanti gallerie”.
Jean
Clair ha parlato ancora di “una strana oligarchia finanziaria mondializzata”.
Robert Hughes stigmatizza, poi, il mondo – non sempre limpido e disinteressato
– dei collezionisti, che sono consapevoli “vittime di estrema feticizzazione” e
tendono a usare l’arte come mero strumento di investimento finanziario, capace di
produrre «plusvalenze sensazionali».
Gli
artisti, dice Hughes, sono privi di ideali e rincorrono a stratagemmi,
autolegittimazioni, virtuosismi che proteggono dal “tedioso spettacolo
dell’inettitudine”, pedine complici, insomma, di una “disgustosa partita
giocata dai ricchi e dagli ignoranti per accrescere il proprio potere e il
proprio prestigio; un’attività deprecabile, ma fruttuosa”.
Siamo
in presenza, come sostiene Eric Hobsbwn, di “una nuova post-arte” con “flussi
variabili di azioni (…) che sono per natura effimere, sebbene possano lasciare
documenti permanenti grazie alla tecnologia”, dove “è impossibile distinguere
tra i sentimenti che si sono sviluppati dentro di noi e quelli che sono stati
introdotti dall’esterno”; forme, immagini, suoni, azioni “non prodotti o
distribuiti per alcun altro scopo che quello di gonfiare le vendite in una
società di consumo di massa”. Solo il contesto museale in una grande
esposizione, aggiunge Hughes, può far ritenere che la nuova arte “talmente
malfatta”, possa suggerire “intenti estetici”, in realtà essi sono inadeguati o
il più delle volte palesemente assenti, con testi di accompagnamento che non
informano né svelano mezzi e contesti ideologizzanti, aformativi e inadeguati comunque,
se non al trionfo del narcisismo retorico degli attori tutti in scena:
curatori, operatori, sponsor, artisti. Ha scritto a proposito Claudio Magris:
“Se si ignorassero gli autori delle opere, il giudizio critico sarebbe molto
più libero e oggettivo, non vincolato da riguardi né da condizionamenti
precedenti; anche un genio può scrivere cose insignificanti (…), ma se sappiamo
che tale pagina o tale opera è di un genio siamo forzati ad attribuire loro
significati in realtà inesistenti”.
La
critica dovrebbe forse esercitare il mestiere per cui è nata seriamente, senza
paura delle consorterie mafiose che si autotutelano nel mondo dell’arte (letteratura
compresa), incapaci di “stroncature” alla Papini o alla Mignosi.
Per
gallerie e musei, con annessi e connessi, scrive Tomaso Montanari, “l’obiettivo
non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione, il metodo non è la
mercificazione, ma la ricerca, il destinatario non è un cliente, ma un
cittadino”. La contaminazione, così
applaudita e ricercata come un Graal, nei musei che hanno tanto da raccontare
(e che tanto di arte autentica possiedono negli scantinati), fra classico e
codificato e linguaggi artistici messi insieme, in relazione (solo muta): è un’altra
imperante moda sconsiderata e tuttavia ritenuta avanguardia necessaria del disidentico. Da quarant’anni la stessa
“operazione nuova”, il novum a tutti
i costi (nella duplice accezione). Che non significa sia chiaro, affatto, voler
mummificare l’esistente, ma è come inserire un brano di Sciarrino nella Nona di Beethoven. Chi ha gusto per
l’uno è libero di trovare l’auditorium che lo propone, liberi gli altri di
scegliere un altro teatro.
Ancora
Montanari puntualizza la linea in cui ridisegnare il rapporto classicità –
contemporaneità: “Ove, per classicità, si intende non un’immobile e inattingibile
galleria di figure eterne da contemplare e di motivi da replicare, ma una miniera
di categorie (bellezza, perfezione, misura, simmetria, armonia) da reinterpretare
in un’ottica moderna. Non un luogo statico, intangibile, ma un patrimonio
necessario. Classico non significa di
altri tempi, ma di sempre (…)
D’altronde, soprattutto nelle epoche di disagi, di crisi e di inquietudini
(come la nostra), si avverte il bisogno di rivolgerci ai classici. Che
custodiscono la vita interiore dell’umanità; rappresentano una riserva di
consapevolezza, servono per riempire abissi e voragini. Non sono vicini a noi; siamo
noi che dobbiamo entrare nella loro orbita, diventando loro contemporanei”.
Una
domanda: è moderno e contemporaneo che riecheggia chiaramente i graffiti
primordiali di Altamira e dell’Addaura o chi li concepì come segno – e chi può escluderlo,
come elaborato di un concetto? – milioni di anni fa.
La
triste realtà è che siamo circondati da tardi copisti o di reduci di
avanguardie centenarie. Meglio i simboli e i segni millenari.
L’ideazione
e la potenza creatrice sono appannaggio di pochi e, infatti, dice Clair, “la
proliferazione della paccottiglia dell’arte contemporanea che oggi invade
perfino i castelli di Versailles e i palazzi di Venezia sta alla modernità della
via del tramonto come l’iconografia sulpiziana stava al cristianesimo
moribondo”.
La
modernità non si evolve e si rinnega, però, nella c.d. postmodernità, quanto
nella ipermodernità, che la continua e l’aggrava.
Come
avviene nei centri storici dove si impiantano o collocano opere contemporanee
gettate lì sembra per caso (ultimo esempio il Planum Ecclesiae della cattedrale di Palermo, “arricchito” da due sculture
decontestualizzate, senza alcuna relazione simbolica e formale, fra il silenzio
assordante dei “critici” dell’Italia loro
e del salviamoci noi. Un
fronteggiamento francamente disarmonico, così come è il trasferire un Leonardo
da Vinci ad una Biennale. E le gabellano, tali operazioni, giustamente, come un
segno dei tempi della
contemporaneità. Pessima.) Aggiunge Montanari che a proposito di talune operazioni
fiorentine anche “in questi dozzinalissimi crossover
il famoso «dialogo» non può che essere formale, visivo, in ogni caso
percepibile attraverso la vista (…) Allora la domanda è: chi è davvero
conservatore? Chi usa Firenze come una quinta monumentale buona a legittimare «la
qualunque» o chi denuncia il parassitismo culturale, il vero e proprio sciacallaggio
intellettuale, di questa stanchissima messa a reddito di un celebratissimo
centro storico? (…) La risposta è purtroppo evidente, così come è evidente che nessun
danno è arrecato al passato. E’ invece il disastro del presente che fa sanguinare
il cuore”. Ciò vale per altri luoghi simbolici usati come scenari da Pompei a
Venezia, da Roma al Palazzo Reale di Palermo, in prestito come location di un set. Tale operazioni
andrebbero, invece, tentate nelle squallide periferie semmai per tentare (non
so fino a che punto) di inserire pezzi di contemporaneità nel tessuto urbano.
Il rischio è che anche nel lugubre scenario di consumatori sovietizzanti, la gente
non capirebbe.
In
questo scenario di rottamatori e incursori smidollati e incolti, ci si
arrovella nell’assedio del presente (Claudio
Giunta) che si ripete, nella dittatura
narcisista del presente (Tomaso Montanari), come pure la definitiva
Pasolini, scandita di graffitari che insudiciano ciò che non gli appartiene.
In
nome del paradigma dell’inclusione indiscriminata, si negano i diritti a chi
vuole pulizia, tutela e decoro; in nome della demagogia buonista, ad esempio,
si ghettizzano orde di giovinastri che avrebbero bisogno di ben altra cura,
penalizzando, ad esempio nella scuola, chi vorrebbe studiare e non vivere nel
terrore. Un paradigma, ancora falso, dell’idea, falsa anch’essa, di eguaglianza
e democrazia concepita a senso unico. Sì, perché esisterà pure il diritto alla
normalità, non solo alla trasgressione ideologizzata, come un falso
umanitarismo da esibire come trofeo. Infatti, non si educa più nè si pensa
minimamente di educare, al massimo si informa l’utenza e si posteggiano i lavoratori
depressi e incapaci di mantenere uno straccio di ordine civile, per paura di ritorsioni
del grande fratello che tutto giudica
e vede e che, inesorabilmente, colpisce chi crede di poter fare cultura.
Tutto
diventa sulfureo, superfluo, scontato e l’arte stessa di oggi, come osserva Edgar
Wind, “non fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte
diventa una splendida superfinalità”. La menzogna globale elevata a sistema di pensiero unico per cui è sacrosanto
salvare almeno il proprio gusto e le proprie idee oltre che indignarsi.
Riconoscendo,
con Gaetano Salvemini, quel che anche noi, modestamente, andiamo da tempo
sostenendo: “Resistete in silenzio, attendete, non fate inutili gesti, badate a
salvare l’anima”. Vale a dire salvare la fragile bellezza sempre in pericolo di
attacco barbarico di talebani, anche nostrani, che distruggono, sorretti da
politici incapaci. È la perdita dell’universale valore nel particolare ludico interesse,
di vandali senza memoria, che ritengono un lusso superfluo la bellezza. Un cupio dissolvi.
Lasciamo
all’ironia geniale di un grande, scrittore, Ennio Flaiano, una fotografia letteraria
d’Autore, anche se datata per difetto di conoscenza dello scarto odierno, di
questo “cimitero della bellezza” che rischia di franarci intorno: “Sono
costretto a esporle una mia teoria. Questa: che da parecchi anni, l’Italia è
invasa da un barbaro autoctono. Si tratta di un’invasione all’interno. Sì,
questo barbaro assedia la città dall’interno delle mura. Chiamatelo come
volete, provinciale, neoricco, cafone, per me resta un barbaro. Io credo che
certe cose si spiegano non soltanto con lo sviluppo della popolazione, ma con la
metempsicosi, con la trasmigrazione delle anime, con qualche diavoleria. Chissà
da dove vengono, è probabile che ce li mandi un altro pianeta. Non
escludiamolo. Comunque, sono italiani anche loro, non si distinguono,
all’apparenza, degli italiani veri, come me e come lei. Si distinguono da ciò
che fanno (…). E’ molto difficile combatterli, prima di tutto perché sono in
tanti e si nascondono anche nei posti di maggiore responsabilità e poi – questa
è forse la ragione principale – perché sanno che cosa vogliono. Vogliono “il
nuovo”. Appena possono distruggono tutto ciò che stimano vecchio per fare posto
al nuovo, adorano il nuovo in tutte le sue forme e manifestazioni. La verità è
che, come tutti i barbari, aspirano a diventare civili, ma hanno un’idea tutta
particolare della civiltà. Per esempio, si vergognano delle nostre antiche
città, delle strade strette, delle vecchie mura, del vecchio risparmio, si
vergognano dei loro nomi e perfino dei loro alberi. Il loro sogno è di essere
altrove. Guardi i nomi che mettono ai loro caffè: questo punto si chiama New
Orleans, quell’altro Brodway, quella trattoria California, quel negozio Piccadilly.
Badi bene, questi barbari non sono sprovvisti di ingegno naturale nè di senso
economico. Con le loro distruzioni non ci rimettono mai e se lei, per fermarli,
invoca la storia e la cultura, sono tanto abili da invocare – che so? - il
traffico o l’igiene… Si stanca presto a vedere le stesse cose o gli stessi
momenti, che al suo spirito non dicono niente. La sua opaca immaginazione ha
sempre bisogno di nuovi stimoli, ha provato mai a lasciare dei bambini soli in un
salotto? Per il bene che vada cambiano posto ai mobili e rompono qualche vaso.
Il suo modello è una specie di America, così egli pensa sia l’America. Non ha,
essendo barbaro, il gusto della conservazione, ma il genio dell’inaugurazione. Lascia
dunque cadere in rovina le cose per poi giustificarne la distruzione…Perché?
Perché nel suo inconscio il barbaro vorrebbe andarsene, trasferirsi lasciare un
Paese che giudica vecchio, un museo. Soltanto da noi la parola museo viene usata
in tono spregiativo”. (Ennio Flaiano, Il
viaggiatore scontento, in “Il Corriere della Sera”, 23 Ottobre 1966).
Un
apologo, che ha tutti i crismi della profezia del presente che ha superato la fantasiosa
e fervida penna di Flaiano.
Quei
barbari costruttori hanno saputo ben distruggere, costruendo l’effimero nulla
in cemento, cartapesta e coriandoli.
Tommaso
Romano
giovedì 30 novembre 2017
La Rivoluzione d’Ottobre, il Comunismo come pura attuazione del pensiero di Marx
di Tommaso Romano
I cento anni della presa del potere in
Russia di Lenin, la fine dello zarismo e l'uccisione di Nicola II e della
famiglia imperiale, la misconosciuta e taciuta resistenza dei
"Bianchi" all’Armata Rossa fino al 1922, lo stalinismo e i gulag,l'assassinio di Lev Trockij da parte dei sicari di Stalin i
fatti del 1956 e del 1968 (con le repressioni violente di Ungheria e
Cecoslovacchia), la guerra fredda e Krusciov, Breznev e Gorbaciov con la Perestrojka,
l’implosione dell’URSS e la caduta del muro di Berlino, ci interrogano e non
interrogano, se non per le stucchevoli rievocazioni della Rivoluzione, nel
silenzio assordante su un centinaio di milioni di morti, prezzo vero di una
utopia negativa al potere nel segno del comunismo, dello Stato ateo dichiarato,
della delazione elevata a virtù, dei "confortevoli lager", non meno
duri di quelli della barbarie nazionalsocialista.
Aveva ragione Edmund Wilson nel suo libro Stazione Finlandia a indicare in Lenin
il culmine del pensiero radicale di 150 anni precedenti.
Un processo di idee e alle idee, allora. Che
ha in Marx il suo profeta, insieme al suo sostenitore materiale e collaboratore
Engels. Ma che ha radici già con l'avvento della Rivoluzione industriale e con
l'Idealismo di Hegel, il pensiero ateo e anticristiano di Furbach e, più in
fondo, con l'Utopia del mondo nuovo da Moro a Campanella (le cui statue furono poste davanti al Cremlino) è, se vogliamo, con tutto il processo che
caratterizza la nascita e la genesi della gnosi
spuria (Ennio Innocenti), l'idea, cioè, di recidere e misconoscere: legami
sacri e originari con il cosmo e con il Dio creatore, per l'uomo e la società considerati
come assoluti.
Fra i meriti delle mie Edizioni Thule, dal
1971, ascrivo molte opere sul comunismo, su Solzenicyn e il dissenso, sugli
effetti dell'ateismo e sulla secolarizzazione in Occidente, sulla resa morale,
spirituale degli intellettuali, ma
ancor di più ricordo un libretto di poche e dense pagine pubblicato in traduzione
italiana (di Paolo Castruccio), risalente al 1978, del maestro del
Giusnaturalismo Cattolico spagnolo, Francisco Elias de Tejada (1918-1978), dal
titolo Il mito del marxismo, che
pubblicai nel 1979. Testo illuminante che dimostra come, confrontandosi con il
linguaggio dello stesso Marx e malgrado le scatenate furie del pensatore di
Treviri "contro i seminatori di utopie e contro coloro che, ai suoi occhi,
ancora erano avvolti dalle nebbie cangianti dei miti", in realtà Marx
costruì il più poderoso fra i miti negativi della storia umana, scandagliandosi
contro i Saint-Simon, Owen, Fourier, quali creatori irrealistici, portatori di
"un senso puramente utopistico", sostenitori di idee antiscientifiche
e antiprogressiste, non in linea con il
senso della storia: la costruzione, ritenuta ineluttabile, dalla società
ugualitaria socialista, contro cui si scaglia nel Manifesto comunista del 1848.
Scrive, a proposito, testualmente Marx che
quegli utopisti prima ricordati, erano "alchimisti sociali", digiuni
di elaborazioni scientifiche, di scienza sociale, di storia dialetticamente
materialista, di non essere cioè "rappresentati degli interessi del
proletariato, che nel frattempo era sorto come prodotto storico. Alla pari dei
razionalisti - continua Marx - questi tre autori non si propongono di
emancipare una determinata classe, bensì tutta l'umanità. E, come costoro, essi
pretendono di instaurare il regno della ragione e della giustizia eterna".
Una fantastica utopia moralistica,
che servirà per denigrare, ideologicamente, i "sognatori" e i
"riformisti".
Fu Proudhon invece ad appellare come
realmente utopistico il pensiero di Marx e il suo socialismo scientifico che egli
fa partire dal Platone della Repubblica
fino alla Icarìa di Cabet. Scrive sul
tema Proudhon: "La prima cosa che mi mise in guardia contro l'utopia
comunista, e di cui i suoi stessi fautori non sospettano, è l'affermazione che
la comunità sia una delle categorie dell'economia politica, da questa pretesa
scienza che il socialismo ha la missione di combattere, e che io ho qualificato
descrizione delle pratiche dei proprietari. Come la proprietà è il monopolio
elevato al quadrato così la comunità è l'esaltazione dello Stato, la
glorificazione della polizia. E come lo Stato si stabilì, nella quinta epoca,
quale reazione contro il monopolio, così pure, nella fase in cui siamo
pervenuti, il comunismo si appresta a dare scacco matto alla proprietà. Il
comunismo, quindi, riproduce, benché in senso inverso, tutte le contraddizioni
dell'economia politica. Il suo segreto consiste nel sostituire all'individuo
l'uomo collettivo in tutte le funzioni sociali: produzione, scambio, consumo,
educazione e famiglia. E poiché questa nuova evoluzione non concepiva e né
risolve nulla, porta fatalmente, come quelle precedenti, all'iniquità e alla
miseria. Così, dunque, il destino del socialismo è completamente negativo;
l'utopia comunista, uscita dal dato economico dello Stato, è la controprova
delle «routine» tipica dei proprietari. Sotto questo punto di vista non difetta
d'utilità, e giova alla scienza sociale, come alla filologia giova l’opposizione
del nulla al qualcosa. Il socialismo è una logomachia”, una disputa, cioè, sull’uso
e il valore delle parole che si basa più sulla parola che sui fatti.
Marx si scaglia, inoltre, contro i
filosofi che si "sono limitati a interpretare il mondo in diverse maniere;
si tratta ora - dice - di cambiarlo".
Come notò de Tejada, Martin Buber, Schwonke
e Jean Servier ascrivono Marx tra gli utopisti, in quanto Marx
"profetizzava escatologicamente un paradiso, il paradiso socialista",
quale esito di una profezia, come effettivamente capì Popper quando scrisse che
"la ricerca economica di Marx è del tutto subordinata alla sua profezia
storica". Anche Nicolas Berdjaev scrisse che la profezia di Marx
pretendeva di realizzarsi nella storia, in uno spazio e in un tempo determinati
e lo stesso percorso fece Rodolfo Mondolfo quando acutamente ebbe a scrivere
che "l'emotività positiva riferita al marxismo consiste, nella sua forma
più esaltante, nella mitificazione e nell’utopismo. Il marxismo è in tal modo
trasformato in una dottrina di salvazione, non meno escatologica per essere
intramondana, in un messianismo, in un messaggio profetico che, attraverso
un'apocalisse rivoluzionaria, promette la redenzione liberatrice".
La
Novità di Marx, aggiunge il de Tejada, è "quella che trasforma Marx in
un eccezionale utopista, è il fatto che la sua utopia non è fuori dal mondo,
bensì nel mondo; che non è una fantasia, bensì una certezza; che è realtà quasi
tangibile, senza detrimenti di illusione o di sogno. Che è, insomma, una
utopia, con un «topos» chiaro: l'intera terra; che è un’ucronìa (mancanza o
assenza di tempo) con un tempo indubitabile: al termine del processo dialettico
delle lotte di classe e forse dopo l'apocalisse della rivoluzione. Utopia ed
ucronìa evidenti, perché Marx giunge ad esse prescindendo da alate fantasie, e
adoperando il metodo scientifico che assicura il suo materialismo storico. La
spiegazione consiste nella novità con cui Marx mette in relazione il razionale
col reale, l'idea con la «praxis»", in quanto Marx colloca il pensiero
dietro al fatto. Non altro è il significato del materialismo storico rispetto
al suo padre e predecessore: l’Idealismo hegeliano. La filosofia è posteriore
alla «praxis». Marx rovescia i presupposti dei precedenti movimenti sociali e
pone come fondamenti gli schemi dell'economia e nella Deutsche Ideologie, e scriverà
infatti: "Il comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistenti
in ciò, che esso capovolge il fondamento di tutti i finora esistenti rapporti
di produzione e di scambio, e tratta tutti i presupposti naturali per la prima
volta coscientemente quali prodotti dell'uomo finora esistente, lo spoglia
della sua dignità naturale, e lo sottomette al potere degli individui
unificati. La sua impostazione è perciò essenzialmente economica".
Marx è un rivoluzionario nelle idee (nella
vita fu un borghese, sostanzialmente), che vede il mutamento totale, violento,
radicale della realtà da abbattere con la rivolta proletaria, a costo di
lastricare di morti il suo cammino. E la rivoluzione, infatti, "esige
perentoriamente l'utopia", che, ancora afferma de Tejada, viene concepita
"come qualcosa di sovraumano, perché nel suo fondo più scuro è il rigetto
dell'ordine divino che dispose la vita terrena in valle di lagrime, vi è
l'aspirazione delirante di creare urgentemente un paradiso quaggiù, affinché
l'uomo possa conquistare la felicità per se stesso, senza alcuna necessità di
Dio (…) La rivoluzione è la secolarizzazione della felicità, e la sostituzione
della rivelazione divina con un mito confezionato dalla ragione umana".
Per Marx il "peccato originale" è
il capitalismo che è da abbattere senza se e senza ma: "I comunisti
sdegnano di occultare le loro idee e propositi. Essi dichiarano francamente che
i loro fini non possono essere raggiunti senza la violenta distruzione
dell'intero ordine sociale, quale è esistito finora. Non a torto le classi
dominanti tremano dinanzi alla minaccia di una rivoluzione comunista. In questa
i proletari non hanno da perdere che le proprie catene. Essi hanno un mondo da
guadagnare" (Die Frühschrftene,
560).
Fu questa la molla delle rivoluzioni
innescate già nel XIX secolo e perfettamente realizzate nel XX in varie parti
del mondo, sotto il pensiero egemone di Marx che, sulla sua scia,
profetizzavano il paradiso terreno dell'umanità, una "escatologia
paradisiaca della storia", una fede laicissima e atea, che scatenò le
élites rivoluzionarie, contagiando masse fino alla rivoluzione finale del 1917,
intesa come redenzione, sogno e sole dell'avvenire.
Una creazione, disse Roger Garaudy, continua dell'uomo da parte dell'uomo, che
affonda negli immortali principii del
1789. Nell'esito politico della Rivoluzione russa "l’intero leninismo
altro non ha fatto che soppiantare il concetto sociologico di classe col
concetto politico di partito, visione certo estremamente efficace in campo
pragmatico" (de Tejada).
La sostituzione dell'individuo all'uomo
collettivo in tutte le funzioni sociali, come voleva Marx, si aggiunse al
volere imperioso del Partito Comunista al potere in URSS, con il braccio armato
di polizia ed esercito che, in nome della dittatura del proletariato, imposero
la dittatura delle oligarchie del Partito, elevando il terrore a sistema di
governo che produsse cento milioni di morti, gulag, lo sterminio dei Cosacchi,
le fosse di Katyn, veri e propri "crimini contro l'umanità", di cui però
si ricordano in pochi, non essendovi stato alcun nuovo "tribunale di
Norimberga". Del resto, lo sterminio di nobili, proprietari, dissidenti e
borghesi indicati come classe da soppiantare era stato già autorevolmente
indicato da Marx ed è stato attuato nei
paradisi comunisti di Cambogia, Cina, Vietnam ecc.
La "felicità per tutti" fu la
tragedia dello sterminio, il carcere, i ritmi forzati della pianificazione
economica, con la complicità morale di parti politiche cospicue dell'Occidente,
che ancora oggi non ricorda i Bukowski, Zinoviev, Pluse, Sacharov, Sinjavskij,
Daniel e soprattutto il lucidissimo Aleksandr Solzenicyn (a cui Piero Vassallo
dedicò, con Thule, un saggio esemplare nel 1974), che era nato nel 1918 e che si
spense, dopo il Nobel, nel 2008. Solzenicyn scrisse La ruota rossa, dieci volumi di settemila pagine, sconosciute
praticamente in Italia, tranne Lenin a
Zurigo e Agosto 1914, che come ha
testimoniato il figlio Stefan, sono stati la missione di tutta una vita dell’eroico
dissidente e autore del fondamentale Una
giornata di Ivan Deninovic, ora
riedito da Einaudi e di Arcipelago Gulag
(Meridiani Mondadori) che si uniscono a un altro testo finale dello scrittore Due secoli insieme, edito a Napoli da
Controcorrente.
Scrisse A. Nemzer che "la più grande
sofferenza di Solzenicyn era la vittoria della Rivoluzione sulla Russia",
da cui derivò poi la lotta culturale e linguistica della Russia, tornata ortodossa,
contro la Rivoluzione. Lotta all’infuocata
lingua della Rivoluzione, che aveva sovvertito il linguaggio e le categorie
stesse della logica, con il suo lessico di odio che l’impoverì notevolmente e
tentò con ogni mezzo la standardizzazione con un continuo ricorso alla
propaganda, al “realismo” dell’arte, al psichiatrico “linguaggio del cervello”.
Per tali ragioni nel 1990 Solzenicyn pubblicò
un Dizionario russo dell'arricchimento
linguistico, in cui documentò l'abbandono di uno straordinario lessico per
un linguaggio burocratico imposto dal partito comunista.
Nel 1974 accogliendo un Premio, Solzenicyn
affermò: "Abbiamo già imparato che l'abbattimento violento degli Stati, i colpi
di mano rivoluzionari non aprono la via al radioso avvenire ma a una rovina
ancora più grave, un arbitrio e una violenza peggiori di prima. E se pure è
destino che nel nostro futuro vi siano rivoluzioni salvifiche, devono essere
rivoluzioni morali".
L'egemonia culturale, teorizzata in salsa
italiana ed europea da Gramsci, si è realizzata pienamente nella rimozione
collettiva dei crimini del comunismo, nel “romanticismo” sessantottesco, nelle
rievocazioni, mostre come quella della Fondazione Feltrinelli, che non dedica
una parola ai dissidenti e ai Gulag, anche nel testo 1917-2017. Una storia europea chiamata rivoluzione.
È come se si parlasse, oggi, di
archeologia, di guerre puniche, riguardo la Rivoluzione d'ottobre; le
"burocrazie amministrative del comunismo italiano" scrive Costanzo
Preve, filosofo marxiano, si sono riciclate come "personale politico di
gestione dell'attuale americanizzazione culturale", nel mondo unipolare.
È stato Robert Conquest che negli anni ‘70
si cominciò a documentare il costo umano dei crimini del comunismo, fino a
giungere al famoso Libro nero, per arrivare all'attuale stagnazione del
processo veritativo sul comunismo, come prassi politica e ideologia da
indagare.
Una "logica" che è pure iscritta
nell'ambito delle dinamiche del turbocapitalismo e di cui, in alcune parti,
Marx fu pure osservatore acuto, ma, tuttavia, profeta a tutto tondo della
tragedia che unisce il comunismo al nazismo alla inumanizzante globalizzazione,
fatta di consumatori schiavi del politicamente corretto, della pubblicità,
delle illusioni che sono poste come più importanti della realtà.
Leonid Andrew nel 1919 scrisse che
bisognava essere dei selvaggi per rimanere impassibili davanti alla condotta
disumana dei bolscevichi, che giunse - come scrisse Stefan Zweig - fino alla
dimensione mistica del culto di Lenin che con Stalin è il vero, rivoluzionario
esecutore del Marx-pensiero, non un degenerato interprete.
Secondo lo storico inglese Peter Burke
ogni tentativo di rovesciare un ordine ingiusto finisce per creare uno
ugualmente ingiusto. È ciò che avvenne con la strategia attuata della menzogna
elevata a sistema, posta in atto dai bolscevichi che, per imporsi nel 1922 sui
Bianchi - che non avevano però veri capi né una solida idea alternativa - sudarono
non poco, e come poco si sa, non volendolo documentare. Lenin effettivamente
riuscì, come diceva, a subordinare la morale alla lotta di classe per approdare
al peggior statalismo centralizzato che è, in sostanza, come disse Vassilij
Grossman, nient'altro che servaggio.
Ciò che inizio il 9 gennaio 1905 e si
concluse nel 1989, è in realtà una parentesi che vede comunistizzato
nell'ateismo, nel laicismo e nell’indifferentismo di massa, il sogno
propagandato, con anestesie mentali, di una umanità livellata, ora in mano ai
potenti della finanza, al posto dei potenti comunisti del partito unico.
Una dinamica totalitaria che continua, una
eterogenesi dei fini, direbbe Augusto Del Noce, che non si è fermata alla fine
della vecchia "Grande Russia" (che non era affatto una potenza,
all'epoca, arretrata come ha dimostrato Boris Mertinov), e che ancora mira con
la rivoluzione antropologica in atto, a costruire un ipotetico e irreale
paradiso in terra, l’uomo nuovo, come allora i bolscevichi e come lavorano oggi
i progressisti illuminati che, esaltando i "mitici" diritti –
presunti - individuali, in realtà eliminano la persona e distruggono ciò che
resta della civiltà.
Testo
integrale dell’intervento svolto all'hotel Federico II per il Rotary Palermo Nord e il Rotary Baia dei Fenici che hanno organizzato l'incontro sul tema "Il destino di una rivoluzione: Ottobre Rosso", il 28 Novembre 2017.
Correlatori: Pasquale Hamel, Aurelio Pes e la Presidente del Club Palermo Nord, che
ringrazio, Anna Maria Corradini
lunedì 27 novembre 2017
mercoledì 22 novembre 2017
martedì 21 novembre 2017
giovedì 9 novembre 2017
Pubblichiamo la motivazione del Premio "Ignazio Buttitta" conferito a Tommaso Romano
Al professor Tommaso Romano, poeta, saggista, narratore per il diuturno sostegno alla crescita artistica e culturale isolana e l'instancabile lavoro di creazione e ricreazione di immaginari simbolici tradizionali e di elaborazione di orizzonti speculativi tesi alla conoscenza dell'inconoscibile.
Marcello Veneziani, “Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti” (Ed. Marsilio)
VENEZIANI E I SUOI IMPERDONABILI MAESTRI SCONVENIENTI
di Tommaso Romano
Contemporaneamente
vengono alla luce due nuovi e robusti volumi di Marcello Veneziani: Tramonti (Giubilei Regnani, Roma, 2017)
e Imperdonabili. Cento ritratti di
maestri sconvenienti (Marsilio, Venezia, 2017), cinquecento pagine,
quest'ultimo, che si delibano con voracità ammirata e magari con un “Porto”, a
distillare questa sorta di autobiografia intellettuale attraverso una
ricognizione - anche memoriale e fatta di incontri personali nodali - su un
pianeta di molti alieni ignoti o semisconosciuti alla cultura ufficiale e a
quella che gioca all'anticonformismo e che è in realtà solo guardona del mondo
come va, dalle trasgressioni modaiole, dalla decadenza dei clown da tragedia de no antri tecnolocratico e
totalitario, che ci controlla dalla culla alla bara. In quale potere cancella
le intelligenze scomode (come le
chiamò per un ciclo RAI, pezzo unico, Giano Accame, fra i giustamente non
dimenticati di questo libro), soprattutto del Novecento, anche se Veneziani
fonda correttamente la sua genealogia a partire dai Giganti: Dante, Petrarca, Machiavelli, Vico, Leopardi,
Schopenauer, Hegel, Dostoevskij, Strirner, Nietzsche, Marx, senza la ridondanza
dell’acritico omaggio e senza la filologia dei pedanti, con richiami essenziali
e conflittuali rispetto alla sua visione del pensiero e dell’Assoluto, con le
chiare ascendenze plotiniane, un Maestro venerato e richiamato da Veneziani,
che non poco ha scritto del filosofo eccelso.
Fare l'elenco dei
profili inseriti, essenziali e calibrati, è esercizio che non serve all'invito
a leggere con lievità e contestuale rigore, tutto il libro, di quelle Ammirate biografie (questo il titolo di
un mio libro simile, nell'impostazione a quello di Veneziani, edito nel 2010 da
Arianna e in cui sono compresi alcuni fra i pensatori, poeti e figure che ci
hanno accompagnato e fatto incontrare con Marcello, che esordì con le mie
Edizioni Thule, nel 1977 con La ricerca
dell'assoluto in Evola, comune maestro di formazione).
Il libro, non è un
catalogo di soli reprobi e introvabili Autori, non è un visto da destra per non dimenticare i fondamenti di una ideale
destra, che forse è solo Centodestre
(altro titolo di profili biografici edito dall’ISSPE e da me curato nel 2012) o
forse un arcipelago di opposti, che ancora ricercano una sintesi per rispondere
alla modernità come ideologia e al nulla come prassi esistenziale vigente e che,
come dice Antonio Carioti, potrebbero intanto trovarla nella difesa della
libertà individuale.
Nel ricco volume di
Veneziani, sempre punteggiato e sostenuto da una prosa che ondeggia vitalmente
fra il filosofico e il lirico, troviamo infatti Autori che sono certo
imprescindibili e non sempre ritenuti "sconvenienti": da Croce a
Gramsci e Adorno, da Mounier a Ortega, Gadamer, da Pasolini a Debord, da Wilde
a Pavese, Sciascia, Pirandello, Bobbio, Emanuele Severino, Camus, Proust,
Borges. Per alcuni di questi è calato l'oblio, si pensi un pontefice come
Croce, oltre il manierismo sterile dell'omaggio dovuto, senza però fare i conti
con la loro proposta di cultura, con le loro provocazioni, libere e spesso
urticanti. Perché questi Autori servono, ha ben ragione Veneziani, come
servirebbero ai progressisti dei miei stivali, in realtà ripetitori modesti e
monotoni di un sessantottismo che non passa, come il fascismo e l'antifascismo,
che De Felice tentò di storicizzare da storico immenso quale fu e che, come
tale è ricordato in punta di penna da Veneziani nel libro. La differenza che,
infatti, continua con qualche eccezione, a sussistere nella cultura italiana da
salotto mediatico, è appunto la rimozione per ignoranza, per partito preso e
chiusura mentale.
Quando non se ne può
fare a meno, questi Autori si citano, trovando sempre però una tessera di
partito o un discorso da demonizzare e da non contestualizzare e soprattutto
senza discernere il contingente che passa dal permanente delle idee che rimane,
da Heidegger a Schmitt, da Bergson a
Sorel, Pessoa, D’Annunzio, Giovanni Gentile, Kraus, Cioran, Pound, Jouvenel,
Rensi, Noventa, Benjamin, Cèline, Mishima, Spengler, tutti al fuoco della controversia, direbbe Luzi,
e usciti dalla penna di Veneziani con rinnovato vigore interpretativo.
Non mancano i
riferimenti segnavia, quelli che, forgiando, consentono la traversata nel
deserto di altri territori, anche se in diaspora è un po' apolidi lo siamo
tutti, ormai, per la morte della Patria
(Galli della Loggia) e perché esuli nella stessa terra in cui viviamo e di cui
ci sentiamo eticamente ed esteticamente estranei, sempre di più.
Pagine di rara
intensità concentrate in schizzi d'Autore (penso, sul versante della pittura,
ai disegni di Mino Maccari) che ci restituiscono pensieri, parole e opere di
autentici esiliati che Veneziani tiene nella sua biblioteca - che ha avuto
traversie, in passato - non solo ideale ma sostanziale, esperienziale, sapendo
trattenere ciò che conta davvero dei libri, e che i più ritengono invece
stantio, pericoloso, reazionario, da imbavagliare e da mettere (se potessero
farlo, ma hanno paura di passare per nazisti e inquisitori) al rogo.
Sì, perché Veneziani
ci restituisce a tutto tondo filosofi e giornalisti, pensatori postumi nei loro
libri, e in quelli voluti mai pubblicare in vita, insieme ad agitatori geniali
e appartati conservatori, identitari e anarchici, spiritualisti simbolici,
demolitori di luoghi comuni, spesso frequentati, visti o conosciuti dallo
stesso autore: Andrea Emo, Rodolfo Quadrelli, Pierre Pascal, Montanelli,
Flaiano, Campanile, Panfilo Gentile, Prezzolini, Malaparte, Oriana Fallaci,
Papini, Marinetti, Guareschi e Volpe.
Non mancano in questo
Almanacco, che in fondo ricapitola la vita di Veneziani, come avventura
intellettuale, esperienza, formazione, con incanti e disincanti, l'album dei
cari, imprescindibili estinti, dal citato Evola a Jünger, Eliade e Zolla,
Guènon e Gomèz Dàvila, Michele Federico Sciacca, Spirito e Del Noce, Thibon,
Berto Ricci, insieme a indefinibili e mistici ed esteti veri come Cristina
Campo, Pavel Florenskij, Weil, Zambrano, Solgenicyn, Tolkien.
Non manca la spoon river della sponda sbagliata, con
nomi e storie cari a un’intera generazione, della quale Veneziani è geniale
alfiere come pochissimi, fra questi generosamente tratteggiati con il rasoio di
Marcello: Giano Accame e Fausto Gianfranceschi, Enzo Erra, Claudio Quarantotto,
Giovanni Volpe e Alfredo Cattabiani, Piero Buscaroli e tante altre ricordate
figure, sotto forma di citazioni sparse per tutto il libro. Pochi, e fa bene
Veneziani, i lavori in corso che egli
esamina di Autori che non svaniranno nel nulla, seppur non sempre condivisibili
come ad esempio de Benoist (la cui componente italiana di estimatori, per
antiche vicende, non è ricordata nei nomi dei protagonisti).
Lo spessore umano e
intellettuale di Veneziani, anche in questo libro, si coglie per intero, come
mettendo insieme i frammenti sparsi o le tessere di un mosaico anzitutto della
memoria, lui che ha lasciato la Puglia per la capitale, non autoesiliandosi per
forza o per ragione, alla periferia dell’impero, come tanti, fra cui chi
scrive, modestamente.
Il mosaico, l'affresco
di Veneziani è così ampio e variegato perfino nel calarsi dall'universale al
particolare, ma va raccolto come una unità sollecitante l'intelligenza, anche
nelle esclusioni, che ne avrebbero però appesantito la già non debole mole. Ma
è anche un invito a ripensarsi, a partire da se stessi, a comprendere che non
tutto è stato vano e che la memoria può affiorare come a irrorare lo scenario
nichilistico e che fa il paio con l'indifferenza dei più.
Condivido, infine,
quanto su "Libero" (3 novembre 2017) ha scritto Vittorio Feltri di
Veneziani: "Ottimo prosatore, uno dei pochi intellettuali che si possono
definire tali malgrado sia di destra, per cui detestato dai tromboni di
sinistra. Con lui ho lavorato molti anni, lo conosco come le mie tasche. Scrive
da Dio cose che non condivido e leggendole spesso cambio idea. D'altronde sono
consapevole di non essere d'accordo sempre con le mie opinioni mutevoli".
Le opinioni variano,
restano i capisaldi, i riferimenti non effimeri, la fede ai valori per chi ha
il dono e la volontà di possederli.
Veneziani merita di
essere annoverato fra i nostri maggiori, con la sua ormai assai larga
produzione (che aspetta un esegeta all'altezza), di essere ascoltato e con i
suoi libri adagiati con cura nelle biblioteche, da consultare spesso. A cominciare,
come in realtà avviene, dalla mia che è il mio unico e vero forziere, che mi
garantisce la vita che ancora si vive leggendo e scrivendo, avendo già non poco
dato, facendo almeno il proprio compito, frutto di una vocazione che ancora,
comunque, non tramonta.
mercoledì 8 novembre 2017
martedì 31 ottobre 2017
Natale Tedesco critico e cultore dell’arte
di Tommaso Romano
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Tommaso Romano, Natale Tedesco, Giuseppe Bonaviri |
Nel 1988 la casa editrice Ediprint di Siracusa di Arnaldo Lombardi, pubblicava di Natale Tedesco (Palermo, 1931 – Santa Flavia, 2016) un volume di 140 pagine, dal titolo Occasioni figurative. Per Bruno Caruso e altri artisti, inserito nella collana “Lettere e Arti”, diretta dallo stesso Tedesco. Vi sono raccolti tredici interventi critici, cinque dei quali dedicati a colui che sarà il grande Amico di una vita, appunto il maestro Bruno Caruso che, con Guttuso e Sciascia, hanno molto rappresentato per Tedesco uomo ed intellettuale, e per il tessuto e la tramatura dell’amicizia e della reciprocità, senza però scadere mai nella piaggeria.
E’ proprio Bruno Caruso, a cui Tedesco dedicherà sempre svariate e organiche attenzioni critiche, fino alla notevole Monografia del 1987 (Bruno Caruso, Ediprint, Siracusa), che resterà un punto fermo, ineludibile sia per la competente passione critica di Tedesco che per l’indagine sull’arte e l’estetica dello stesso Caruso.
Leonardo Sciascia, ricordiamolo, condirettore e primo animatore della storica rivista nissena “Galleria”, aveva voluto un esemplare numero monografico dedicato proprio a Caruso (anno XIX, n 1-2, Gennaio- Aprile 1969), curato da Elio Mercuri, riprendendo, rivisto, il testo di Tedesco Testimonianza «grafica», che era stato già edito in “Realtà del Mezzogiorno”, nel giugno 1967; successivo è l’articolo apparso su “L’Ora” di Palermo, Exempla di Caruso. “Il ratto di Proserpina” del 12-13 Luglio 1968.
Nella Testimonianza grafica, commento al volume Opere grafiche di Bruno Caruso (Sciascia, 1957-1968), Tedesco detta il metodo, le coordinate, in certo senso, che lo ispireranno negli altri suoi interventi di storia e critica d’arte, di estetica distillati nel tempo e nella quantità, ma essenziali a comporre un ritratto d’Autore completo anche se tale versante, come certo merita la straordinaria e complessa figura di Natale Tedesco.
Scriveva appunto in quel testo, Tedesco: “Di fronte alla ossessiva e gridata sollecitazione della realtà del movimento neorealistico del dopoguerra e alla fuga dalla realtà del volontaristico e pur acefalo «astrattismo» successivo, Caruso, ha un suo terzo progetto di avanzare. Ed è proprio questa realtà minore, obliterata dagli uni e dagli altri, che è riproposta da una sensibilità e da una intelligenza che mentre si accorge di poterne ancora fare esperienza giornaliera, subito la decanta e la filtra come da un fondo oscuro di lontane e ora affioranti memorie. La validità di questa proposta, sostanzialmente assai ambiziosa nonostante presenti un contenuto minore, è nell’ancora accertabile verità di questi elementi dell’esistenza, sentiti tuttavia come occasioni poetiche e non visti come pezzi di realtà da farne materia per veristici bozzetti. L’arte di Bruno Caruso implica una evidente o nascosta elaborazione dei dati dell’esperienza alla luce di un concetto; alla base del primo episodio della sua grafica, era sottintesa una crisi dell’uomo in rapporto al vivere e al giudicare, che si manifestava nei termini di un idillio moderno, una stupita pessimistica contemplazione del mondo. Quando anche quest’espressione della crisi venne meno, e si vide che l’artista si rigirava nella sua cifra cristallizzata, fu chiaro che questo avveniva perché il dramma del giudicare si era trasformato in una vera e propria sospensione del giudizio, in una mortificazione della volontà”. Concludeva Tedesco così la sua riflessione nel 1967: “Se i successivi lavori di Bruno Caruso saranno all’altezza di questo risultato, (che egli aveva avvertito e sottolineato nel testo parlando di grafiche del tempo) vorrà dire che egli, piuttosto che affidarsi alla sua bravura e al suo estro, avrà cercato di aumentare la luce dell’intelligenza, perciò - è un dato per me inconfutabile-, per accertare i valori della sua opera, dovremo come sempre reperire la trama intellettuale su cui ordisce la sua sensibilità grafica e figurativa”.
Nell’ampia monografia del 1987 ricordata, Tedesco indica in Caruso “uno degli artisti più rappresentativi della cultura siciliana e però europea”, in una tensione stilistica, “che più che nel suo puntare al moderno che risulta poi e spesso provvisorio, tale arte gioca le sue carte definitive in una intrinseca unità di classicità e contemporaneità. Le inquietudini e gli sperimentalismi del presente, sono filtrati, in Caruso particolarmente, da una sensibilità che riguadagna l’antico, il classico, come educazione formale che si rinnova nel tempo, non come modelli che si ripetono immobili. L’aspirazione all’assoluto delle immagini si declina storicamente, però reinventando la tradizione, essa pone sè stessa come altro, come nuovo e diverso. La migliore pittura di Caruso, che pure si è abilitata sul colorismo di una particolare aria impressionistica, appartiene alla tradizione che ha alla sua base un impianto disegnativo. Tuttavia è per forza concettuale che l’eccellente disegnatore e grafico si trasforma in grande pittore”. Sempre riferendosi all’artista, nel testo del 1987, Tedesco, come già si è potuto evidenziare in precedenza, traccia una precisa linea e scelta estetica che è anche ideologica e dottrinale come l’estetica dovrebbe, per naturale statuto, fare (e che è diversa dalla critica d’arte, sempre in realtà complementare), come suo compito proprio, pena l’insignificanza a cui si è ridotta invero oggi, megafono di nichilismi assortiti di tarda modernità. Leggiamo Tedesco tenendo conto del valore che egli assegna all’opera di Caruso, ma al contempo rendendola fondante anche senza la relazione strettamente all’opera dell’artista: “Caruso sta sempre più nella tradizione, ma nel modo originale che si è visto e, dunque non per facile pigrizia o nostalgia retrograda, ma per una scelta difficile contestatrice di una impervia strada che è impraticabile a passatori e novatori. Perciò la sua invenzione risulta attualissima, se allo stato puro di patimento vi troviamo i nostri problemi esistenti ed espressivi. È necessario intendere questo bisogno, motivato passionalmente e spiegato razionalmente, di essere fedele al proprio tempo e di opporvisi con eguale tenacia: perché esemplarità e antagonismo sono gli elementi complementari che connotano la peculiarità e la qualità della sua testimonianza artistica. Coinvolto nel nostro vivere, l’artista è appunto, antagonista del presente, nel senso che, in definitiva, egli vuole giocare le sue carte nei tempi lunghi della storia e non su quelli corti e provvisori della cronaca dove, se i gazzettieri, che ora, con cannocchiali rovesciati, si atteggiano a profeti, possono avere ragione, possono pure avere fortuna i falsi acrobati delle trovate che lasciano interdetti gli imbecilli”.
Caruso fu appellato anche come un lettore per immagini da Tedesco, che a sua volta fu ritratto vividamente dal maestro palermitano.
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T. Romano, N. Tedesco, G. Bonaviri, D. Grammatico, S. Ferlita |
Nell’Immago espressa, prima e fondamentale ricognizione simbolico-estetica della celebre villa bagherese “Palagonia”, tra norma ed eccezione, dice Tedesco, si rintracciano le coordinate fantastiche ed esoteriche che ebbero nel principe Ferdinando Francesco Gravina il maggiore ideatore; figura, di eccezione ma che tuttavia conserva una superstite fedeltà alla norma, nel cuore del progetto del 1715 del domenicano architetto Tommaso Maria Napoli: “La finzione – scrive Tedesco e tal proposito – quale rinvio ad altro e come il sogno di quello che non c’è; il recupero del passato, il mondo dei miti ritrovato con naturalezza o riproposto grottescamente; l’acquisto e il rifiuto del presente nella tranquilla rappresentazione o nel farnetico più estroverso o più chiuso. Tutto questo, e altro ancora, c’è nulla statuaria, nei marmi (e nei finti marmi), sugli specchi, nei mosaici o meglio affreschi di villa Palagonia”.
Enigma o follia? come si chiedeva Gioacchino Lanza Tomasi. “Gli esiti di deformazione espressionistica cui giungono le svolte più originali di Villa Palagonia, i cosiddetti mostri della spettacolare creazioni fantastiche del Principe, confermarono una propensione collettiva dell’atteggiarsi formale della cultura siciliana”. Nel 2013, ancora con Lombardi editore, Tedesco pubblica Villa Palagonia tra norma ed eccezione, con uno scritto di Rita Palma e fotografie di Salvatore Farina, che riecheggia, divulgativamente, il testo prima citato.
Come si è potuto constatare il nodo gordiano che lega la Sicilia alla cultura e al suo labirintico humus, ritorna in Tedesco anche prendendo quale metafora esemplare la Villa Palagonia, di quella Bagheria che lo vide protagonista con Buttitta, Guttuso, Civello, Giardina, e con altri intellettuali felicemente viventi e speranti.
Si è accennato all’altra costante consuetudine di amicizia che Tedesco nutriva per Guttuso e del sodalizio che lo legava, prima del triste epilogo politico e personale fra i due, a Sciascia. Tedesco scrive non poco e con estrema chiarezza, ancora critica ed estetica, di Guttuso. Si ritorni ad un altro scritto, contenuto in un numero speciale di “Galleria” del 1971, dedicato a Renato, agli interventi per la mostra al Palazzo Reale, detto dei Normanni, a Palermo e alle svariate testimonianze a lui dedicate. Una di queste, a Villa Cattolica, è del febbraio 2007, per celebrare il ventennale della morte. Questo il ricordo di Natale: “Guttuso fu profondo uomo di cultura e non tutti i pittori lo sono. Visse nella Bagheria delle mille contraddizioni che a livello di macrocosmo si riassumono nella questione meridionale di Antonio Gramsci. Guttuso è due volte reale nel suo intento civile, nel suo essere simbolico, vi è in lui un empito sociale che si basa sull’esperienza diretta che matura una dimensione storico- civile”.
Fu proprio questo l’argomento che, a Salisburgo, nel 2012, Tedesco affronterà nel XX Convegno dell’Associazione Internazionale Professori di Italianistica su un tema generale che gli era certo congeniale e proprio alle sue corde di italianista illustre e di cultura di sinestesie vitali: “L’Italia e le arti, lingua e letteratura a dialogo con Arte, Musica e Spettacolo”.
Se scorgiamo i temi e gli interessi di Tedesco, oltre quelli ben noti di critica e storia della letteratura, vedremo l’intrecciarsi di quelle trame che Natale ricordava a proposito di Caruso. E che hanno le loro radici nella letteratura, come è evidente, oltre che nella storia ed anche del genius loci. Penso ai fondamentali testi tedeschiani sul barocco, in particolare al Settecento in Sicilia. L’ilare melanconia e la rivoluzione felice (Sciascia, 1993), in cui si racconta di Dante nella scuola siciliana del secondo Settecento; del “secolo delle cose” e all’opera del Bisso; del De Cosmi; del Turturici; che testimoniano la sua competente erudizione, mai asettica e scissa da contesti pregnanti, di cui L’Imago espressa. Villa Palagonia (residenza a lui carissima e che abitò felicemente per tanti anni), mostra tutta la ricchezza, competenza e capacità di magistrale interdisciplinarerietà, virtù gli erano proprie, perché nativamente - non lo si dimentichi - Tedesco fu poeta di livello, di poche e straordinarie poesie, raccolte solo recentemente con il titolo, In viaggio, editato Aragno nel 2012.
Le altre occasioni figurative che si snodano nei testi di Tedesco, riguardano vari Artisti, alcuni di questi sono presenti nel volume del 1988, altri sono successivi o sparsi. Ricorderò, almeno, gli interventi su Maurilio Catalano e Raffaello Piraino (che ci riportano al clima sciasciano della galleria “Arte al Borgo” nelle sue due sedi via Turati e via Mazzini); su Luigi Guericchio e le sue ascendenze contadine con l’opera di Rocco Scotellaro; sulle genealogia archetipica contadina e dei pittori dei caratti di un Guttuso (1962 – 1970); sull’opera, fra astrazioni e destino figurativo, di Mario Pecoraino (il ritratto di Sciascia, in bronzo, del 1973, lo feci acquistare e collocare a Palazzo Comitini) e ancora alla centralità umanistica in Giacomo Porzano (1975) ; alla mitologia minima di Spinoccia; alle incisioni di Andrea Volo “quando in essi l’istanza civile e pubblica di conserta con la sollecitazione esistenziale e privata” (1974) e, non ultima, la predilezione condivisa da Sciascia per l’opera di Tono Zancanaro, o della sua “normalità artistica”, tesa a “puntare all’assoluto dal particolare, a scoprire la bellezza nell’orrido, liberare la purezza dalla lussuria”, espressioni che ci fanno tornare all’analisi e visione di Tedesco su Villa Palagonia, in un intreccio, ancora, con l’esoterismo di Casimiro Piccolo di Calanova e che l’artista orladino (chi parte da Rosai e Matisse e ha come maestri dell’oltranza figurale Alberto Martini e Picasso), fra “classicità e surrealtà” purezza e oltranza, che sonoi pilastri - conclude Tedesco - della complessa fabbrica di Tono.”
Di altri validi artisti Tedesco si interesserà e scriverà, sempre con la curiosità, la passione, il rigore, il carattere, che ne contraddistinsero la nobile figura, di intellettuale colto e autentico maestro, che ritroviamo per intero nell’opera sua completa.
Fra questi artisti compaiono: Gigi Martorelli, Fabrizio Clerici, il fotografo Angelo Pitrone, Ferdinando Scianna, Emilio Guaschino, il giovane Alletto, ovviamente qui omettendo la schiera robusta dei letterati di cui però, almeno, mi piace ricordare il comune sodalizio che ci accomunava con Giuseppe Bonaviri.
Concludo, come in un ciclo vichiano, prendendo a emblema e pretesto quanto scrisse Tedesco sul “L’ora”, e proposito di una nuova a Gibellina e di Joppolo, scultore, pittore e scrittore: “Anche in Joppolo come in tutti i siciliani c’è il gusto e il seme della superficie dell’esteriore ma come posizione materialistica a portare fuori in turgori e tortuosità di matrice barocca, bensì in colori e trame fisiologiche luminescenti, le pulsioni inconsce, le istanze comportamentali individuali e sociali”.
Di questa e di altre cento sollecitazioni, i confronti, le provocazioni intellettuali, le analisi e valutazioni, i simboli evocativi, tanto ampi quanto stimolanti, siamo grati e debitori a Natale Tedesco, che pensò all’arte come illuministica e tuttavia ideale parte di una libera totalità che ha il suo centro nella parola, e che si svolge nella complessità, che è la cifra del suo e nostro tempo.
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