di Tommaso Romano
Al
decadere delle tradizionali piccole mostre monografiche in gallerie d’arte, che
erano spesso veri e propri spazi simbolici, centri di cultura, con ruoli
essenziali di indicazione, come già nel 1959 aveva previsto Roberto Longhi, si
assiste di converso, ad una ipertrofia di “eventi”, di “ grandi mostre”, in
piccoli e grandi centri, in musei e “contenitori”, con ripetizioni visive e
concettuali veramente deprimenti nel proporre moduli e autori, correnti e
istallazioni in serie, obbedienti al grande circo, al lunapark dell’arte
contemporanea, fatto di pressapochismo, sperpero di denaro, di gigantismo, di cataloghi
e costosi, di banali supporti informatici; un fenomeno definito di “mostrificazioni”,
giustamente, per erudire le masse e
farle partecipare al rito, all’evento imperdibile.
Già
nel 1996, Federico Zeri scriveva di “pleiadi di mostre e mostriciattole, spesso
insignificanti, inutili, a base commerciale e promozionale, sempre costose”, e
Cesare Brandi parlava di un assedio, di una “infestante proliferazione di mostre
– eventi di scarso o nullo valore culturale, votate ad un effimera
spettacolarizzazione fine a se stessa, «vuoti a rendere», che indicano artificialmente
un consumo feticistico, bolle di sapone multicolori che lasciano dietro di sé
praticamente il nulla”.
Chiavi in mano, si
spostano croste e/o capolavori (con grande rischio di deperimento), non certo
per ampliare criticamente la conoscenza dei giovani, e la libertà di ricerca, e
senza adeguate informazioni e supporti di esplicitazioni chiare e scientifiche
(non adoperando linguaggi incomprensibili per pseudo iniziati in cataloghi e
supporti), senza legami con le opere, gli autori e i contesti da cui derivano
le opere stesse. Il successo è dato
dallo sbigliettamento delle folle a Biennali e simili fiere, che non espongono
neppure le discutibili tendenze internazionali, ma i soliti noti con le solite
salse acide rimescolate.
Acutamente,
come sa esserlo sempre, Jean Clair ha sostenuto: “Le folle che accalcano questi
luoghi, assembramenti di persone solitarie non più nuove da una fede comune,
religiosa, sociale o politica (…) hanno trovato nell’arte la loro ultima
avventura collettiva. Scomparsa ogni fede, ci si imbatte invece in uno
smarrimento comune, in una maggiore solitudine”.
Nel
relativismo del tutto lecito e del tutto da esporre/esporsi, annega così la
decifrazione stessa, la comprensione dell’elementare, con l’assenza di stile
autentico. Tutto è amplificato, gonfiato, nell’evento, in realtà banale, nell’appariscenza e inesistenza, come i
loro protagonisti presunti. Tutto resta frutto di calcoli di mercanti e connivenze,
profitti, uso di marchi e loro sfruttamento: “un Picasso” designa nell’immaginario
un’automobile più che un pittore; ancora quantità contro qualità, numero, e
mercificazione che generano come, sosteneva Pound, i cancri della denarolatria,
avarizia, usura, scambiando culturale e arte con spettacolo, marketing ed
economia, comunicazione di massa, “bene” e scambio, rendimento.
Già
nel 1937 Paul Valery pronosticava, - come Spengler, Evola, Guènon e poi Eliot e
Pound e tutta la teologia centrata sull’Apocalisse, - di un età in cui si
sarebbe determinata “una depressione dei valori intellettuali, un abbassamento,
una decadenza paragonabili a quelli (…) registrati alla fine dell’antichità”.
Siamo nell’era avvizzita dell’apparenza e dell’irrealismo, per cui, come diceva
Guy Debord “la realtà sorge nello spettacolo e lo è reale”.
Le
mostre, gli “eventi”, fanno parte di questo penoso reality, tanto che Piero Citati ha giustamente sottolineato: “Non
so quando finirà questa orgia di eventi spettacolari, con cui si cerca invano
di far amare la pittura a un pubblico che non la ama”. E parlava ancora di
pittura, Citati.
Oggi
valgono i sontuosi allestimenti, mostre kolossal,
affidate a firme che nessuno conosce
per attività o progetti, “costosi cenotafi dentro cui riporre quadri e
sculture” (Vincenzo Trione, Contro le
mostre), esibendo come simulacri e ancora Trione “per legittimare questi
teatrini di Disneyland, ci si nasconde dietro la maschera dell’operazione didattica
(…) Nascono così cloni ingigantiti proiettati su schemi e su pareti che invitano
lo spettatore a vivere un’irrepetibile esperienza emozionale, sensoriale,
visiva (…). Il fine nobile di questi show: farci precipitare dentro complesse
composizioni di icone e di colori. In effetti, però, dietro questo alibi
pedagogico c’è solo la furbizia commerciale”.
Una
prostituzione, che ha sedotto musei nati seriamente e oggi ridotti a predatori
di proposte mediocri, anche con l’ausilio di firme, a volte, prestigiose (gli
scarti, le opere peggio riuscite sono patrimonio di ognuno, ma fare la gara
all’accaparramento dell’inedito pessimo, è quantomeno diseducativo).
Tutto
il metro resta allora il successo, i
guadagni, il numero di visitatori.
Oggi
mostre e musei sono troppo spesso “mattatoi culturali”, incapaci di
approfondimenti e proposte, subordinati a “percorsi” prestabiliti, che
somigliano ad una fila al rancio.
Trione
sostiene che bisogna ricominciare “a considerare le opere d’arte non come
comparse di costosi show, ma come magnifici strumenti per interrogarci sulle
nostre inquietudini, sul nostro modo di guardarci il mondo”. Oltre le “ortodossie
interpretative”.
La virtualità che
accompagna le mostre e le grandi rassegne come megastore e fast
food totalizza, con risposta preconfezionata, le eventuali domande di senso. Un
alluvione di dati e immagini ulteriori di puro intrattenimento, che evitano
l’apprendimento e annichiliscono lo sguardo, senza il silenzio necessario di
chi vuole fruire e il rinvio non a cataloghi costosi, ma allo studio, serio,
libero, comparato. Oppure, che non è conoscibile, all’istinto di chi osserva (penso
alle opere emblematiche di un Renato Mambor). Bisogna, insomma, imparare ad autoformarsi,
vista l’assenza di perizia dei maestri o di semplici insegnanti, e concentrarsi
su poche opere, da approfondire e conoscere, non correre per vedere tutto e non
capire quasi nulla.
Questo
sommovimento continuo da una mostra all’altra, alimentato da interessata
pubblicità, da un continente altro, decontestualizzato, mette a rischio le
opere stesse da inevitabili danneggiamenti causati da trasferimenti e
imballaggi.
Naturalmente,
il bello che abbiamo intorno, a cominciare da chiese e palazzi, lo ignoriamo o aspettiamo,
per giungervi, improvvisate e improvvide “vie dei tesori” (è veramente
indicativo il ricorso concettuale ripetuto, al denaro sempre, al “bene”, al “giacimento”,
al “consumo”, all’ “utile”, alla “turistizzazione” della cultura, insomma, come
se l’Eldorado risolutore consistesse in una coda ad una mostra).
Il
ruolo dei cosiddetti critici – che non distinguono estetica da critica e storia
dell’arte, molto spesso – dice Robert Hughes “è sfibrante. E’ un po’ come fare
il pianista in un bordello: non si ha alcun controllo di quello che avviene in camera”;
che Vargas Llosa ha giustamente definito, visitando una Biennale di Venezia, la
“terribile orfanità di idee”, di culture (…) di abilità artigianale, di
autenticità e di integrità che caratterizza buona parte dell’attività
artistica. Diciamolo francamente: la mostrificazione è uno specchio di una barbarie
generalizzata, di una caduta epocale nel livellamento e che ci ricordano a cosa
siamo, e ci hanno voluto, ridurre. Con pretese di elitarismo, politicamente
corretto ed effimero elevati a religione mondana, in un sociologismo di massima
che accompagna tali riti che più che illustrare o penetrare, scavano nelle
tenebre, spettacolarizzando nell’eccentrico che si ripete monotono, anche nella
ricerca delle “novità” dell’orrido e del transumano.
Marc
Fumaroli ha parlato dall’artwordl
come di “una setta quasi scientologica”, con i loro mercanti, templi, gallerie
e riti, le istallazioni e “le prodezze trasgressive, le processioni le ArtParades,
il clero, i plastificatori e parrocchiani, i ricchi collezionisti debitamente «fidelizzati»
(… ) un’entità fiduciaria, concepita, promossa e consumata da un ristretto club
mondiale (…) asservita alla pubblicità e al grande commercio di lusso (…)
dispone di abili cacciatori di teste «artistiche», le quali agiscono di proprio
conto o vengono impiegate (…) dalle grandi compagnie di vendita e dai titolari
di importanti gallerie”.
Jean
Clair ha parlato ancora di “una strana oligarchia finanziaria mondializzata”.
Robert Hughes stigmatizza, poi, il mondo – non sempre limpido e disinteressato
– dei collezionisti, che sono consapevoli “vittime di estrema feticizzazione” e
tendono a usare l’arte come mero strumento di investimento finanziario, capace di
produrre «plusvalenze sensazionali».
Gli
artisti, dice Hughes, sono privi di ideali e rincorrono a stratagemmi,
autolegittimazioni, virtuosismi che proteggono dal “tedioso spettacolo
dell’inettitudine”, pedine complici, insomma, di una “disgustosa partita
giocata dai ricchi e dagli ignoranti per accrescere il proprio potere e il
proprio prestigio; un’attività deprecabile, ma fruttuosa”.
Siamo
in presenza, come sostiene Eric Hobsbwn, di “una nuova post-arte” con “flussi
variabili di azioni (…) che sono per natura effimere, sebbene possano lasciare
documenti permanenti grazie alla tecnologia”, dove “è impossibile distinguere
tra i sentimenti che si sono sviluppati dentro di noi e quelli che sono stati
introdotti dall’esterno”; forme, immagini, suoni, azioni “non prodotti o
distribuiti per alcun altro scopo che quello di gonfiare le vendite in una
società di consumo di massa”. Solo il contesto museale in una grande
esposizione, aggiunge Hughes, può far ritenere che la nuova arte “talmente
malfatta”, possa suggerire “intenti estetici”, in realtà essi sono inadeguati o
il più delle volte palesemente assenti, con testi di accompagnamento che non
informano né svelano mezzi e contesti ideologizzanti, aformativi e inadeguati comunque,
se non al trionfo del narcisismo retorico degli attori tutti in scena:
curatori, operatori, sponsor, artisti. Ha scritto a proposito Claudio Magris:
“Se si ignorassero gli autori delle opere, il giudizio critico sarebbe molto
più libero e oggettivo, non vincolato da riguardi né da condizionamenti
precedenti; anche un genio può scrivere cose insignificanti (…), ma se sappiamo
che tale pagina o tale opera è di un genio siamo forzati ad attribuire loro
significati in realtà inesistenti”.
La
critica dovrebbe forse esercitare il mestiere per cui è nata seriamente, senza
paura delle consorterie mafiose che si autotutelano nel mondo dell’arte (letteratura
compresa), incapaci di “stroncature” alla Papini o alla Mignosi.
Per
gallerie e musei, con annessi e connessi, scrive Tomaso Montanari, “l’obiettivo
non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione, il metodo non è la
mercificazione, ma la ricerca, il destinatario non è un cliente, ma un
cittadino”. La contaminazione, così
applaudita e ricercata come un Graal, nei musei che hanno tanto da raccontare
(e che tanto di arte autentica possiedono negli scantinati), fra classico e
codificato e linguaggi artistici messi insieme, in relazione (solo muta): è un’altra
imperante moda sconsiderata e tuttavia ritenuta avanguardia necessaria del disidentico. Da quarant’anni la stessa
“operazione nuova”, il novum a tutti
i costi (nella duplice accezione). Che non significa sia chiaro, affatto, voler
mummificare l’esistente, ma è come inserire un brano di Sciarrino nella Nona di Beethoven. Chi ha gusto per
l’uno è libero di trovare l’auditorium che lo propone, liberi gli altri di
scegliere un altro teatro.
Ancora
Montanari puntualizza la linea in cui ridisegnare il rapporto classicità –
contemporaneità: “Ove, per classicità, si intende non un’immobile e inattingibile
galleria di figure eterne da contemplare e di motivi da replicare, ma una miniera
di categorie (bellezza, perfezione, misura, simmetria, armonia) da reinterpretare
in un’ottica moderna. Non un luogo statico, intangibile, ma un patrimonio
necessario. Classico non significa di
altri tempi, ma di sempre (…)
D’altronde, soprattutto nelle epoche di disagi, di crisi e di inquietudini
(come la nostra), si avverte il bisogno di rivolgerci ai classici. Che
custodiscono la vita interiore dell’umanità; rappresentano una riserva di
consapevolezza, servono per riempire abissi e voragini. Non sono vicini a noi; siamo
noi che dobbiamo entrare nella loro orbita, diventando loro contemporanei”.
Una
domanda: è moderno e contemporaneo che riecheggia chiaramente i graffiti
primordiali di Altamira e dell’Addaura o chi li concepì come segno – e chi può escluderlo,
come elaborato di un concetto? – milioni di anni fa.
La
triste realtà è che siamo circondati da tardi copisti o di reduci di
avanguardie centenarie. Meglio i simboli e i segni millenari.
L’ideazione
e la potenza creatrice sono appannaggio di pochi e, infatti, dice Clair, “la
proliferazione della paccottiglia dell’arte contemporanea che oggi invade
perfino i castelli di Versailles e i palazzi di Venezia sta alla modernità della
via del tramonto come l’iconografia sulpiziana stava al cristianesimo
moribondo”.
La
modernità non si evolve e si rinnega, però, nella c.d. postmodernità, quanto
nella ipermodernità, che la continua e l’aggrava.
Come
avviene nei centri storici dove si impiantano o collocano opere contemporanee
gettate lì sembra per caso (ultimo esempio il Planum Ecclesiae della cattedrale di Palermo, “arricchito” da due sculture
decontestualizzate, senza alcuna relazione simbolica e formale, fra il silenzio
assordante dei “critici” dell’Italia loro
e del salviamoci noi. Un
fronteggiamento francamente disarmonico, così come è il trasferire un Leonardo
da Vinci ad una Biennale. E le gabellano, tali operazioni, giustamente, come un
segno dei tempi della
contemporaneità. Pessima.) Aggiunge Montanari che a proposito di talune operazioni
fiorentine anche “in questi dozzinalissimi crossover
il famoso «dialogo» non può che essere formale, visivo, in ogni caso
percepibile attraverso la vista (…) Allora la domanda è: chi è davvero
conservatore? Chi usa Firenze come una quinta monumentale buona a legittimare «la
qualunque» o chi denuncia il parassitismo culturale, il vero e proprio sciacallaggio
intellettuale, di questa stanchissima messa a reddito di un celebratissimo
centro storico? (…) La risposta è purtroppo evidente, così come è evidente che nessun
danno è arrecato al passato. E’ invece il disastro del presente che fa sanguinare
il cuore”. Ciò vale per altri luoghi simbolici usati come scenari da Pompei a
Venezia, da Roma al Palazzo Reale di Palermo, in prestito come location di un set. Tale operazioni
andrebbero, invece, tentate nelle squallide periferie semmai per tentare (non
so fino a che punto) di inserire pezzi di contemporaneità nel tessuto urbano.
Il rischio è che anche nel lugubre scenario di consumatori sovietizzanti, la gente
non capirebbe.
In
questo scenario di rottamatori e incursori smidollati e incolti, ci si
arrovella nell’assedio del presente (Claudio
Giunta) che si ripete, nella dittatura
narcisista del presente (Tomaso Montanari), come pure la definitiva
Pasolini, scandita di graffitari che insudiciano ciò che non gli appartiene.
In
nome del paradigma dell’inclusione indiscriminata, si negano i diritti a chi
vuole pulizia, tutela e decoro; in nome della demagogia buonista, ad esempio,
si ghettizzano orde di giovinastri che avrebbero bisogno di ben altra cura,
penalizzando, ad esempio nella scuola, chi vorrebbe studiare e non vivere nel
terrore. Un paradigma, ancora falso, dell’idea, falsa anch’essa, di eguaglianza
e democrazia concepita a senso unico. Sì, perché esisterà pure il diritto alla
normalità, non solo alla trasgressione ideologizzata, come un falso
umanitarismo da esibire come trofeo. Infatti, non si educa più nè si pensa
minimamente di educare, al massimo si informa l’utenza e si posteggiano i lavoratori
depressi e incapaci di mantenere uno straccio di ordine civile, per paura di ritorsioni
del grande fratello che tutto giudica
e vede e che, inesorabilmente, colpisce chi crede di poter fare cultura.
Tutto
diventa sulfureo, superfluo, scontato e l’arte stessa di oggi, come osserva Edgar
Wind, “non fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte
diventa una splendida superfinalità”. La menzogna globale elevata a sistema di pensiero unico per cui è sacrosanto
salvare almeno il proprio gusto e le proprie idee oltre che indignarsi.
Riconoscendo,
con Gaetano Salvemini, quel che anche noi, modestamente, andiamo da tempo
sostenendo: “Resistete in silenzio, attendete, non fate inutili gesti, badate a
salvare l’anima”. Vale a dire salvare la fragile bellezza sempre in pericolo di
attacco barbarico di talebani, anche nostrani, che distruggono, sorretti da
politici incapaci. È la perdita dell’universale valore nel particolare ludico interesse,
di vandali senza memoria, che ritengono un lusso superfluo la bellezza. Un cupio dissolvi.
Lasciamo
all’ironia geniale di un grande, scrittore, Ennio Flaiano, una fotografia letteraria
d’Autore, anche se datata per difetto di conoscenza dello scarto odierno, di
questo “cimitero della bellezza” che rischia di franarci intorno: “Sono
costretto a esporle una mia teoria. Questa: che da parecchi anni, l’Italia è
invasa da un barbaro autoctono. Si tratta di un’invasione all’interno. Sì,
questo barbaro assedia la città dall’interno delle mura. Chiamatelo come
volete, provinciale, neoricco, cafone, per me resta un barbaro. Io credo che
certe cose si spiegano non soltanto con lo sviluppo della popolazione, ma con la
metempsicosi, con la trasmigrazione delle anime, con qualche diavoleria. Chissà
da dove vengono, è probabile che ce li mandi un altro pianeta. Non
escludiamolo. Comunque, sono italiani anche loro, non si distinguono,
all’apparenza, degli italiani veri, come me e come lei. Si distinguono da ciò
che fanno (…). E’ molto difficile combatterli, prima di tutto perché sono in
tanti e si nascondono anche nei posti di maggiore responsabilità e poi – questa
è forse la ragione principale – perché sanno che cosa vogliono. Vogliono “il
nuovo”. Appena possono distruggono tutto ciò che stimano vecchio per fare posto
al nuovo, adorano il nuovo in tutte le sue forme e manifestazioni. La verità è
che, come tutti i barbari, aspirano a diventare civili, ma hanno un’idea tutta
particolare della civiltà. Per esempio, si vergognano delle nostre antiche
città, delle strade strette, delle vecchie mura, del vecchio risparmio, si
vergognano dei loro nomi e perfino dei loro alberi. Il loro sogno è di essere
altrove. Guardi i nomi che mettono ai loro caffè: questo punto si chiama New
Orleans, quell’altro Brodway, quella trattoria California, quel negozio Piccadilly.
Badi bene, questi barbari non sono sprovvisti di ingegno naturale nè di senso
economico. Con le loro distruzioni non ci rimettono mai e se lei, per fermarli,
invoca la storia e la cultura, sono tanto abili da invocare – che so? - il
traffico o l’igiene… Si stanca presto a vedere le stesse cose o gli stessi
momenti, che al suo spirito non dicono niente. La sua opaca immaginazione ha
sempre bisogno di nuovi stimoli, ha provato mai a lasciare dei bambini soli in un
salotto? Per il bene che vada cambiano posto ai mobili e rompono qualche vaso.
Il suo modello è una specie di America, così egli pensa sia l’America. Non ha,
essendo barbaro, il gusto della conservazione, ma il genio dell’inaugurazione. Lascia
dunque cadere in rovina le cose per poi giustificarne la distruzione…Perché?
Perché nel suo inconscio il barbaro vorrebbe andarsene, trasferirsi lasciare un
Paese che giudica vecchio, un museo. Soltanto da noi la parola museo viene usata
in tono spregiativo”. (Ennio Flaiano, Il
viaggiatore scontento, in “Il Corriere della Sera”, 23 Ottobre 1966).
Un
apologo, che ha tutti i crismi della profezia del presente che ha superato la fantasiosa
e fervida penna di Flaiano.
Quei
barbari costruttori hanno saputo ben distruggere, costruendo l’effimero nulla
in cemento, cartapesta e coriandoli.
Tommaso
Romano
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