martedì 6 giugno 2017

Prefazione di Salvatore Lo Bue al Volume di Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'insegna dell'Ippogrifo)

di  Salvatore Lo Bue

No, non è la terra desolata la terra del poemetto di Tommaso Romano. Aprile, in essa, non è il più crudele dei mesi, nessuno gioca a carte col destino né la morte trascorre vittoriosa tra i versi e le vite. Nessun Phlebas ha posto in questi incruenti, vuoti, adiposi giorni del primo decennio del nuovo millennio: il nulla si è riassorbito, non pretende una più o meno evidente origine: è, semplicemente, diventato niente, un niente da cui niente è e niente deve diventare.
Siamo diventati gli uomini vuoti, gli uomini impagliati cantati da Eliot, quelli “che poggiano l’un l’altro/ la testa piena di paglia”: tutte figure “senza forma”, tutti ombre “senza colore”, paralizzati dalla energia mai spesa, nei gesti privi di movimento.   
Gli uomini che non hanno occhi, che si svegliano soli, vivi “nell’altro regno della morte” che è l’anima senza sangue e il corpo senza spirito, perduti senza perdizione nel vuoto regno del niente.
E niente accade se non la vuota negazione in questa terra ormai più neanche desolata, perché anche la desolazione l’ha lasciata, e la tentazione stessa si è ritratta perché neanche degni di essere tentati sono gli uomini impagliati. Perché sempre “Tra l’idea/ e la realtà/ tra il gesto/ e l’atto/ cade l’Ombra. Tra la concezione/ e la creazione/ tra l’emozione/ e la responsione/ cade l’Ombra. Tra il desiderio/ e lo spasmo/ tra la potenza/ e l’esistenza/ tra l’essenza e la discendenza/ cade l’Ombra.”
Tommaso Romano punta il suo sguardo radicalmente nostalgico su questo nostro mondo nientificato. La sua nost-algìa è dolore del ritorno, rimpianto più che disincanto, desiderio di fuga più che viaggio. Il poeta sa, e ne rivela il dramma insipiente, che “è questo il modo in cui il mondo finisce/ non con uno schianto ma con un piagnisteo”, ma il piagnisteo evita, con una visione concreta, minimale, visibile del suo disagio originario. Orami il tempo è passato, a grandi passi si annuncia il tramonto e tutto si stempera nella piena consapevolezza della cenere che il tempo ha deposto, ma nella umiltà del poeta è compresa la sua fragile ma mai arresa denuncia dell’ideale perduto.

“Ora che il tempo
ti ha distaccato
da tutto
guardi e vivi quasi
da greco filosofo”
così fra strade
antiche e nuove
Montevergini, Albergheria,
Borgo e Serradifalco.
Ma quale greco e quale filosofo
volete che sia,
utile a voi, forse,
per incensare le vostre miserie
le pseudoscienze delle vostre frustrazioni
la “poesia” del vostro smarrimento
dell’incapacità a essere
se non la pagina in cui desiderate
onori immeritati
pagine di comparaggio
di miserie civettuole
sterco del maligno
che chiamate errore
e che amate trastullare
come un orpello bello
per la vostra miseria
infinita.
Sì, ha vinto il banale, “tutto ciò che ci incatena” prima dell’orizzonte, la speranze del mutamento, perché non è facile fondare “dentro di sé/ prima che in altri/ la libertà”. Ha perduto il cuore dell’uomo nell’universo mercificato, che contrabbanda democrazia e acquista tirannia, che ha rifiutato la tecnica, perché “tutto è relativo ormai/ e tutto è nulla annunciato/ nel deserto dei cuori”: Dio stesso è stato frantumato come l'antico Dioniso dalla specie titanica, perché sono tornati gli antichi Titani, i Giganti della montagna, i segreti Dominatori di una terra che hanno preteso senza vita e senza poesia. E che per primo hanno fatto fuori, perché unico ostacolo ai disegni del Male, il Salvatore, il Cristo dell’Amore, il Logos del principio, con la complicità dei mortali che adorano solo il denaro.

O Cristo,
sei venuto per nulla
profeta fra tanti
forse un po’ petulante
nella adagiata livellata consuetudine altrui.
O Cristo,
non t’immischiare
finché non ti sfrattano del tutto
per un minareto
o un teatro delle beffe
o un comizio
o per far prosperare topi infetti.
T’hanno sfrattato, infatti,
caro il mio Signore,
non conti nulla
- e forse è bene così -
non mischiarti
e lascia a pochi
e il sangue e il corpo,
pochi appestati
fedeli al sempre.

Così prende nuovo vigore, nel poemetto di Tommaso Romano, la profezia terribile della Leggenda del grande inquisitore di Fedor Dostoewskji. Se intollerabile è il peso della libertà (e Cristo è la Libertà) allora è necessario deporre il Messia ai piedi degli altari falsi e bugiardi, affidarlo alle cure di tutte le chiese perché possa essere anestetizzato, ridotto, umiliato, nuovamente deriso. Perché, in fondo, “Dio/ non solo non c’è mai stato/ ma neppure ha dato e creato/ men che meno nella rivoluzione/ di sé”; e nella trasmissione delle età, che cosa sono quelle antiche storie di salvezza se non “favole imbelli/ per bimbi di una volta/ con giglio e marsina”? E ogni pensiero libero è eresia, ogni libertà un oltraggio nella terra non più desolata abitata dal niente, perduta l’anima, dimenticata la legge, oltraggiato il cuore. Hanno vinto i Giganti della montagna, ha vinto il potere illuminista, l’idea di progresso ha perduto la strada dell’ideale, ha dimenticato il nome del cielo. Dai pontefici “nuovissimi” ai “nuovi potenti che odiano il genere umano” così sottilmente parlando per suo favore ma in verità spegnendo con cura la luce di ogni anima viva che resiste ma che prima o poi si spegnerà, tutto si perde, tutto diventa inutile, vacuo, disperante, mortale. Quale mondo ci attende ora che tutto come sempre continua, ora che niente si ferma e precipita nell’abisso orrendo dell’oblio? Perché niente vale, non c’è più futuro e niente vale la pena.

Non vale pena alcuna
la testimonianza
non si quantizza, non rende
strano il testimone isolato
cantore di Verità,
ma la verità non esiste
quando lo capirai veramente, siamo seri,
l’apocalisse è soltanto un testo letterario
pensa piuttosto a tesaurizzare
il resto si vedrà
se vuoi non perdere
il preziosissimo tempo passato a pensare,
dopo vedremo
non si può
favoleggiare
il futuro
dato che forse la morte
presto s’annullerà,
stiamo alacremente lavorando al fine
tutto s’allunga
non si sa per qual fato,
intanto, lavorare
per l’ingranaggio infallibile
non pensarti mai
lavora
produci sempre più,
la stanchezza non esiste
se non per gli eletti
gli unti del dio terreno massimo,

In questo mondo dominato dalla assenza del Logos e dalla potenza di una vuota Comunicazione che niente comunica e tutto decide e impone che cosa resta allora? Morire? Arrendersi? Resistere? Illudersi? Credere? Fuggire? La terra degli uomini vuoti è potente perché niente più della vuotezza concede spazi al Male. Ma al poeta che resta?
La Parola non muta, la bellezza è luce e verità. L’anima del poeta è già salva fin dal principio. Ma occorre un riparo, uno spazio in cui la Luce possa essere custodita, in cui la Vita appaia nello stesso tempo ma in tutti i tempi diversi che la con pongono.  
Occorre una stanza del cuore, che sappia reagire all’oltraggio di una società senza scopo, alla invidia degli uomini vuoti, dove attingere l’olio che alimenti la lampada del cuore, dove essere e ritrovarsi intatto come in principio, come quando la sorgente ha cominciato a scorrere e l’acqua della nostra anima era pura, trasparente, appena battezzata dalla speranza. Perché la salvezza è anche un luogo e il regno dei cieli possiamo costruircelo sulla terra, se racconta delle stelle fisse di tutta una vita, delle irrinunciabili essenze che governano ogni bene e la felicità.
Tommaso Romano ha costruito la Casa della Poesia, il suo piccolo regno dei cieli nella sua casa-studio-sacrario di Palermo.
Egli, il Des Esseintes senza disperazione e senza turbamento, traducendo perfettamente senza deviazioni ideologiche la poetica decadente, a saputo trasformare in poesia la sua vita, in arte il suo tempo, in casa la sua anima. Entrando nel tempio sacro della sua unicità, ha reso unico il suo transeunte presente in un presente senza tempo che sintetizza la storia come memoria esperita e mai perduta, che si rinnova in oggi oggetto, quadro, disegno, pittura, scultura che accorcia i tempi e sfiora l’eterno. Il miracolo di questa casa che è il regno dei cieli che ha saputo creare sulla terra d’esordio e d’attesa della sua vita è lo stesso miracolo di questo poemetto che sintetizza, come fosse già scritto da tempo e ora emerso, la storia di un’anima.
Non sono piccole cose, di certo non di pessimo gusto. Non vive Gozzano in questo spazio ideale, platonico, della casa del poeta. Vive l’Idea. Che l’Arte sia più della vita, oltre la vita, prima della vita, come l’Idea nella pianura della verità è eternamente “prima” della cosa in cui si incarna. Che la poesia possa essere una costruzione di memorie non solo trascritte su foglio, ma raccolte sulla strada del mondo, sul cammino a volte doloroso della memoria. Si, il tempo si è fermato dove ha preso dimora la Memoria. E presto il Viandante-Poesia la raggiungerà e abiteranno per sempre insieme, nella stanza miracolosa.
Qui, nel regno dei cieli di Tommaso Romano, “l’esilio delle cose ha una Patria, l'eletto spazio sacro perdona tutto ma non il banale. Qui il mondo si perde, gli uomini restano, per Dio è disposto un altare. Se la sua casa è il Tempio di Tommaso Romano, egli ne è l’altare maggiore, la luce del cero pasquale che non si spegne.
La casa del poeta, il suo regno dei cieli, è l’Unico composto, l’organismo della memoria e della vita vivente nei frammenti raccolti: oggetti-frammenti, kairòi pindarici, elementi di quell’intero dissipante che è il trascorrere delle acque del tempo qui fermate per sempre.
Ma tutto passa.
Ahi, misera passasti.
Nerina è la Vita. Il soffio. Il divenire travolgente. E come un sogno fu la tua vita... E come un sogno è la nostra vita. Così, alla fine il Grido... “Non bruciate le carte,/ non bruciate questo mosaico,/ non smembratelo,/ non disperdetelo/ è amato come perfezione possibile/ s’accresce come Graal d’anima mia/ ... Pietoso grido di chi sa che ha un destino di morte... Ma che di chi non sa che il regno dei cieli non muore mai. E il tuo regno dei cieli lo hai reso eterno, Tommaso, mio amico, in questa invocazione mistica, di cui “resteranno le parole”, perché questo “poemetto d’Ottobre, inattuale” è una al vento, al Vento che dove vuole spira, e ogni cosa che tocca eterna.




Gli Atti dei Convegni palermitani su Cristianesimo e Islamismo editi dall'ISSPE

Vede la luce dopo ventisette anni dall’ultimo degli “Incontri tra Cristianesimo e Islamismo” un volume di circa duecento pagine edito dall’ISSPE-Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici (dopo la presidenza di Giuseppe Tricoli, Dino Grammatico, Ciccio Virga, di chi scrive, ed ora di Umberto Balistreri) dal titolo Sacro e Profano. Per un incontro tra Cristianesimo e Islamismo, con il patrocini dei GRE-Gruppi Ricerca Ecologica e della Fondazione Thule Culturale e con la cura attenta di Pier Luigi Aurea e Umberto Balisteri, ambedue animatori dei Convegni palermitani del “Circolo di Cultura Mediterranea” e della rivista “Sacro e Profano”. Il volume – corredato opportunamente di fotografie dell’epoca con personaggi e studiosi autorevolissimi convenuti a Palermo nel tempo – dà conto degli atti dei convegni ricordati, dei Premi Mircea Eliade e del “Solanto”. Si apre, il bel volume con una introduzione di Aurea e si conclude con una nota di Balistreri ambedue utilissime per inquadrare l‘importanza degli eventi e il grande contributo di studiosi e ricercatori sia accademici, che esponenti del mondo cattolico e islamico, quanto di cultori e ricercatori. Mi pare opportuno riportare la sintetica, ma assai pregnante, introduzione di Pier Luigi Aurea: «L’obiettivo principale di “Sacro e Profano” fu quello di costruire uno strumento di studio e di divulgazione delle tematiche, che in senso lato, si definirono religiose. E la rivista non intendeva inserirsi nel novero delle pubblicazioni specialistiche, ognuna delle quali svolgeva egregiamente il ruolo di approfondimento scientifico, ma di creare un veicolo di aggregazione, prima di tutto tra loro che già si incontrarono e stimarono nel corso di vari convegni e riunioni, e poi tra tutti coloro che, pur da diverse ottiche e da diversi bagagli culturali, consideravano il sacro la vera essenza della realtà e la via religiosa l’unico scopo dell‘esistenza umana. Alla rivista del Circolo Culturale Mediterraneo, sorto nel dicembre del 1981, collaborarono e diedero la loro adesione personalità religiose, esponenti del mondo accademico e intellettuali di varia estrazione culturale, ma tutti aperti al dialogo, che significò, e significa, capacita di ascoltare ed accettare nel massimo rispetto le idee e le esperienze altrui.
Sono due gli atteggiamenti che si rifiutarono in senso assoluto: il settarismo e il sincretismo confusionario. Entrambi gli atteggiamenti, che sembrano opposti, in effetti rappresentano le due facce della medesima medaglia, poiché indicano in fondo una scarsa saldezza di principi, in quanto il settarismo, nel suo arrogante rifiuto di qualsiasi confronto di idee e, anzi, nell‘impedire la possibilità di esprimere opinioni divergenti, dimostra l’incapacità di difendere le proprie idee in un confronto franco e libero. Allo stesso modo si rifiutò il malinteso dialogo, oggi molto di moda, che tende a confondere i riti, le preghiere, etc. nella ricerca, non certo dell’unità e della sintesi, che implicano un punto di vista superiore - metafisico - ma nella ricerca di punti di incontro tra le varie tradizioni religiose al livello più basso: sociale, sentimentale e, al massimo, morale. Già altre volte abbiamo affermato che consideriamo le diverse religioni ortodosse come delle vie, con i propri dogmi, i propri riti, la propria etica, indicanti il cammino verso l’Assoluto. Da cattolici quali noi siamo, e ci sentiamo profondamente, consideriamo il credente di religione musulmana o ebraica o di qualsiasi altra religione ortodossa non un nemico da combattere, ma una persona che segue una via diversa dalla nostra per raggiungere il medesimo fine ultimo. In questa ottica, il riuscire a cogliere con la massima apertura d’animo la profonda spiritualità espressa da tradizioni diverse dalla nostra, non può che rafforzare e, talvolta, permettere anche di capire meglio la via spirituale che ognuno di noi segue.
E la rivista(1982-1991) si collegò strettamente all’attività che il Circolo Culturale “Mediterraneo“ svolse nella direzione di un‘opera volta a risvegliare la dimensione del sacro. Il titolo stesso - Sacro e Profano - mostra chiaramente come gli argomenti affrontati - con una campionatura essenziale presentata nel presente lavoro pubblicato dall‘ISSPE - interessano non solo le tematiche religiose in senso stretto, ma tutti gli argomenti possibili (letterari, storici, scientifici, di costume) purché affrontati da un’ottica - per cosi dire. Trascendente.
Per colui che crede in Dio - per l’uomo normale - non esiste nulla che non abbia un significato sacro. Il termine profano, pertanto, deve essere inteso nel senso di quegli aspetti della realtà che la cultura ufficiale e la civiltà attuale, volta ad un processo di secolarizzazione sempre piu accentuato, considerano staccati da ogni visione trascendente, ma che la rivista affrontò esclusivamente da una prospettiva metafisica».
Come si è potuto leggere un piano di conoscenza reciproca fra le due grandi religioni del Libro (senza ovviamente escludere l’Ebraica che è base spirituale ineludibile per tutti i Monoteismi) attraverso l’ottica di penetrazione sui temi nodali, ma adoperando un metodo che, se avesse fatto ulteriore scuola, non avrebbe allontanato ma vieppiù fatto comprendere le convergenze e divergenze partendo però da quel Dialogo dello Spirito, che fu il tema che trattai e che è riportato, insieme agli Atti, editi delle edizioni Thule, sempre da me dirette a partire ad 1971. [Segnando la cronologia faremo memoria dei luoghi, dei temi e della personalità intervenute nel tempo dal 1982 al 1990.
Il primo Convegno si svolse l’11 e 12 Dicembre 1982 a Mondello, al Palace Hotel, sul tema “Incontro fra Cristianesimo e Islamismo come soluzione alla crisi del mondo moderno”. Gli atti furono editi de Thule (e sono ora anch’essi ristampati), vi compaiono testi nel volume generale di cui occupiamo di Aurea, del Cardinale Salvatore Pappalardo, di Mentor H. Cionku – Gropa, di Alessandro Bausani, di mons. Crispino Valenziano, Bent Parodi, Umberto Balistreri, Roberto Rubinacci, Pio Filippani Ronconi, P. Anselmo Lipari, Abd Al Wahab] Pallacivini, George C. Anawati, Abdel Wahab Bouhdida, Giuseppina Igonetti, Vittorio Vettori, Mourice Borremans, Janette Najem Sfeir, Gianni Allegra, Andrea Borruso, Giuseppina Igonetti, Vintila Horia, Claudio Mutti, Thomas Michel, Janette Najem Sfeir, Andreas Salama, Salvatore Maria Sergio, Khaled Shamir, Elémire Zolla, Giulio Basetti Sani, Franco Cardini.
Una schiera di grande e robusta qualità intellettuale (anche se vi fornisce solo l’elenco), a cui vanno aggiunto altri protagonisti di cui non sono stati possibile rivenire i testi: Giulio Bonafede, Giovanni D’Espinosa, Fausto Gianfranceschi, Giuseppe Tricoli, Gaetano Catalano, Pierre Andrè, Antonio Osnato, Alessandro Musco, Piero Scanziani, Adolfo Morganti, Maurizio Graffeo, Giuseppe Rovella, Claudio Mutti, Dino Grammatico nonché di Consoli, Ambasciatori della Lega degli Stati Arabi e di altri Stati, scrittori, docenti, giornalisti.
Altro indiscusso protagonista fra Mircea Eliade – a Palermo nel per ritirare il “Premio Internazionale Mediterraneo”, curato da Nino Muccioli con la Giuria di cui fecero parte – presidente Mario Sansone, e che riuscii a fare partecipare con un intervento pubblico, al Convegno cristiano-islamico. Restano fotografie e una splendida intervista di una intera pagina rilasciata al “Giornale di Sicilia”, autore il non dimenticato Bent Parodi Morto Eliade, si sembrò buona cosa dedicargli un Premio da assegnare a latere dei Convegni, che presiedetti per quattro edizioni, anch’esse memorabili, anche per l’altissima qualità dei premiati e della Giuria. Nel 1987 fu inseguito il filosofo cattolico Augusto Del Noce e la cerimonia ebbe luogo nell’Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza; nel 1988 a Elèmire Zolla complesso indagatore della religioni saggista e narratore, il premio fu consegnato nella sede della Fondazione Chiazzese, nel 1989 assegnammo il Premio a Pio Filippani Ronconi autentico erudito, cattedratico; nel 1990 si rese onore con il Premio Eliade al Prof. Roberto Rubinacci, islamista e ordinario all’Università di Napoli. Fra i componenti della Giuria Allegra, Pierfranco Bruni, Grisi, Alfio Inserra, Lucio Zinna, Orazio Sbacchi, Balistreri, Dino Grammatico Muccioli, Giafranceschi, Orazio Tanelli.
Nel 1997 e nel 2000 si rivolsero a Santa Flavia due edizioni del “Premio Solanto”, ancora presidiato da chi scrive. Premiammo scrittori, giornalisti e artisti internazionali quali Romeo Magherescu, Pina Lupoi, Paolo Erasmo Mangiante, Roberto Andò, Mario Azzolini, Giuseppe Quatriglio, Pino Giacopelli, Sebastiano Tusa ed altri intellettuali esponenti del genius loci come Carlo Puleo, Angelo Restivo, Lo Iacono Battaglia, Pippo Ferreri.
Il resoconto proposto, può apparire un elenco arido di nomi noti o meno celebrati, nonché di studiosi e addetti ai lavori. Potremmo invece continuare con la ricca schiera di collaboratori alla rivista “Sacro e Profano”, che uscì, in bella vesta tipografica, in quegli stessi anni. Ma si rimanda senz’altro al volume che dà conto meticolosamente e scientificamente di tutto questo e di tanto altro.
Va detto, però, che quella che abbiamo ricordato fu in realtà una vera e propria impresa intellettuale e morale e un raro esempio di equilibrio, di reciproca amicizia e comprensione religiosa e culturale, senza scadere nella spirituale disputa, nella demagogia dei forcaioli o nel sincretismo che vede con un colpo di penna annullare le peculiari e vitali specificità delle identità civili e religiose. Uno sforzo corale, che vide in Aurea e Balistreri gli appassionati e generosi alfieri, a cui - da partecipe attivo del progetto - va la mia amicale riconoscenza di studioso, nel ricordo di tanti Amici, seppur scomparsi da anni, che restano autentici testimoni di una fervida stagione, che vide in quegli anni Palermo al centro del Mediterraneo, non per trasbordare nell’irenismo e nel dialogo a tutti i costi, quanto per vivificare la conoscenza e la fede.


Tommaso Romano