Per ragioni non dipendenti dalla Nostra volontà, preghiamo di prendere buona nota che la Presentazione del libro di Elio Corrao, HEL e altri racconti e successivo concerto, non si svolgeranno alla Libreria Mondadori di via Ruggero Settimo, bensì nella Sala Convegni dell'Hotel Mediterraneo, via Rosolino Pilo 43, a 50 metri dalla precedente sede, invariato l'orario, ore 17:00 e i Relatori.
lunedì 27 marzo 2017
sabato 25 marzo 2017
La luce del mito secondo Marcello Veneziani
Ma siamo nella bella
Italia del dolore ostello, come direbbe il Padre Dante, e ingnoriamo o
cancelliamo la intelligenze vive, scintillanti, preziose.
Si marginalizza nelle
frange, si legge poco e si studia meno, si affibiano cliches di zinco
sempiterni e scontati, si odiano le passioni nette, forti, le scritture
eleganti e incisive, il buon senso e il culto della icone della bellezza e
della tradizione. Una iconoclastica infame e miserabile.
Perfino coloro che
dovrebbero cercare l’Arca smarrita nella riva libera e in quella destra,
impegnati come sono nel loro “particulare” vuoto pneumatico, come chiusi in un
fortino di cartapesta, al massimo concedono qualche cenno, una labile
recensione, un dibattito sul come eravamo. Vili e nani nel cervello, bisce
nella vita.
Non troveremo Veneziani
neppure paludato, in onore, ai Lincei e non sappiamo peraltro se sarebbe stato
accolto alla Reale Accademia d’Italia.
Destino dei grandi. Sì,
perché Marcello – classe 1955 di Bisceglie, vivente tra Roma e Talamone - è un
grande scrittore, un pensatore eccellente, uno studioso attento, un pensatore
autonomo e profondo, un saggista verace e commentatore televisivo, opinionista
e giornalista mordace. E questo non va certamente a genio ai minuscoli
camaleonti, agli scrittori e soprattutto ai critici gonfiati artificialmente
nella greppia di laboratorio, ai protetti delle mafie saccenti delle egemonie
culturali, agli accademici laureati di Metastasio e ai copisti imbelli di tesi
di laurea altrui.
Che fare? Almeno
dichiarare la verità.
Ho letto tutti i libri
di Marcello Veneziani, avendo avuto anche l’onore – che vale l’intera avventura
editoriale di Thule (si è tanto originali nell’ambiente, che hanno perfino tentato di copiarne l’etichetta
viva ,vegeta e operosa sin dal 1971, pensate l’originalità e l’immaginazione a quale potere possano
aspirare!). di pubblicarlo per primo nella periferia del decadente impero, qui
a Palermo, nel 1976 con la sua Ricerca
dell’Assoluto in Julius Evola.
Da allora, Veneziani ci
ha consegnato un intero, raffinato scaffale, ricco di meditazioni, riflessioni
costanti, memorie, narrazioni, interventi. Ha diretto settimanali, periodici,
animando cenacoli, fondazioni e imprese nobilmente donchisciottesche e quindi
autentiche.
Un riferimento, anche
di stile umano e letterario, è stato ed è Veneziani.
Testi memorabili i
suoi, che si incrociano con gratitudine nella memoria, quali architravi
possibili e disponibili per avviare, almeno, una rinascenza delle idee che si
fanno azione (Jean Ousset) che, a parole, tutti
auspicano e a cui pochi mettono mano in realtà con sudore, fatica e
costanza.
Ne ricordo solo alcuni,
di questi volumi di Marcello Veneziani, per me paradigmatici a cui peraltro
ricorro spesso, ricordando inoltre le molte occasioni di presentazioni,
dibattiti, incontri in tanti angoli e anfratti dell’isola e della penisola: Processo all’Occidente, La rivoluzione
conservatrice in Italia, Comunitari o liberal, Di padre in figlio, USA e costumi, Elogio
della Tradizione, La cultura della Destra, La sconfitta delle idee, Contro i
barbari. Il secolo sterminato, Sud, I vinti, Rovesciare il ’68, Dio, Patria e
Famiglia, Dopo il declino, Lettera agli italiani e, ancora, dopo questi
saggi di filosofia politica e analisi metapolitica, non meno importanti i volumi
curati e quelli antologici, fino ai nodali dedicati a temi esistenziali, con
saggi filosofici e preziose scritture letterarie, come: Vita natural durante, La
sposa invisibile, Il segreto del viandante, Amor fati, Un’ora d’aria, Vivere
non basta, Anima e corpo, Ritorno a Sud.
Adesso, dopo aver letto
e assaporato Alla luce del mito. Guardare
il mondo con altri occhi (Marsilio, 2017),
si può confessare di restare francamente incantati dalle straordinarie
capacità di Veneziani di condensare, con
rara efficacia, ciò che altri studiosi hanno invece consegnato in tomi e
volumi, a volte illegibili o mal digeribili, tronfi di petulante specialismo.
La prosa aforistica di
Veneziani è invece sempre persuasiva nella profondità, in grado di avvincere
con stile letterario e linguaggio personalissimi, seppur debitori,
fortunatamente, di una lirica classicità. All’uomo di oggi, scrive Veneziani,
“il mito non offre profitti ma fondamenti, non assicura vantaggi ma
significati. Dona bellezza, irraggia gli eventi e illumina i volti”.
Il mito è ordine nella bellezza e tutta l’umana
avventura ha come origine e come perpetuità il mito: l’amore, l’infanzia, la
storia, la politica, ma anche il cinema e la pubblicità, gli atti significati
della nostra vita. Nel triste oblio del pensiero filosofico e delle certezze
una volta sostenuti dalla religione, davanti a scienza e tecnica egemoni non ci
resta, dice Veneziani, che il mitopensiero, come orizzonte e bisogno, odierno e
non antiquario, che comunque sopravvive, nel disastro della modernità, nel
“deserto del sistema globalitario”. Il mito non è ipotesi, è una trascendenza
possibile e non incapacitante, un bisogno di bellezza oltre il naturalismo, per
un racconto profetico che unisce ieri, oggi e domani e serve per elevare l’umano oltre l’economicismo, le
oligarchie finanziarie, l’utilitarismo e la povertà dei contenuti specie nella
politica odierna, che vivacchia senza grandi idee e motivazioni e con progetti
debolissimi, mortiferi di delocalizzazione
mentale, come uso dire.
Dai Greci ad Enea, a
Dante a Petrarca, dalla grande musica all’arte possiamo ripercorrere le vie che
evocano, non solo per conservare ma per riscoprire lo spirito, il sogno, per
una “pedagogia di massa per educare agli esempi”, ai modelli da riscoprire e valorizzare
di ciò che è “attiguo alla realtà”, diventando visione del mondo, di contro
alle mitizzazioni negative, alle mitomanie imperanti, del subumano, al falso
buonismo elevato ad assoluto, obliando il senso dell’equità e della giustizia.
Il mito non è la verità
ma aiuta a scoprila, e non è un’invenzione o, peggio, una finzione è, dice
ancora Veneziani, “la vista ulteriore che trasforma il nostro sguardo e apre
altri orizzonti”, e ancora, “il mito è illuminazione. Non si basa su fatti,
esperienze e giudizi, ma li illumina e li dota di senso, visione e destino. Oscurantismo
è pendere dalle sole labbra della ragione”, dopo “i dubbi della ragione
critica”, È, in sostanza, il “narrare e il pensare il mondo con altri occhi,
sotto altra luce”, e al contempo,
seguendo Vico, è l’universale che investe ogni civiltà, ed “è cosmico, non è
geo-storico”, si tramanda, può “fondare un nuovo sapere” sulle rovine.
Ed ecco perché,
aggiunge profeticamente Veneziani, “Occorre un pensiero possente per affrontare
la tecnica sconfinata e la mega-macchina. Il pensiero logico- matematico, al
pari di ogni filosofia della Praxis, conduce alla tecnica. Il
pensiero da solo non riesce a competere se non si apre all’universalità dei
miti, preparandone l’avvento. Solo un pensiero mitico potrà sfidare il potere
sovrano della tecnica (e della finanza). La potenza autonoma di un’altra
origine, di un’altra sovranità con un’altra destinazione”.
Quando i lavoratori fanno
finta di fare gli insegnanti e ricusano il ruolo di educatori perché incapaci,
cominciano ad impartire agli alunni da motivare eventualmente, luoghi comuni e
discettano che l’avvento della filosofia fu, finalmente, “il superamento del
mito, delle narrazioni fantastiche, dell’epica” che avrebbero oscurato
l’avvento, finalmente, della ragione liberatrice dalla caverna, appunto, del
mito, in tal pessimo modo il tragico si sposa con il grottesco, per terminare
nel delirio dell’ombra della ragione, che infatti così produce mostri. “La
perdita del mito genera ectoplasmi depressi o almeno annoiati. Senza mito la
vita gira a fari spenti nella notte”, nel “buio del pensiero negativo”. Per questo Platone induce a
ricordare, perché ogni conoscenza è reminiscenza, della baconiana sapienza degli antichi, e così che si
dota una comunità di un “autobiografia ideale”, facendo coincidere, con
Schlegel e i Romantici, la mitologia con la poesia che universalizzano
l’esperienza oltre l’individualismo egoistico. È, in sostanza, lo stato
aurorale che pervade. Dice ancora Veneziani, e noi lo sosteniamo dal nostro
punto visuale mosaicosmico: “Il mito a noi appare il ritorno all’armonia del Kosmos, una forma ideale di ordine
dell’universo, tutto meno che un caos: ogni cosa trova il suo rango e la sua
spiegazione e si colloca come epifania ricorrente nell’ordine perenne del
mondo. Non confusio ma connectio”.
Il mito è quindi extratemporale,
supera il tempo e le
strettoie dell’io, gli altri sono futili surrogati temporanei propri del
sistema della menzogna e della degradazione del piacere, come diceva Fausto
Gianfranceschi, che drogano l’esistenza anche con la peste chimica e con quella
che si spinge all’indifferenza impotente.
L’incalzante e affascinante scrittura sapienziale di
Veneziani non si limita a percorre sentieri che possono sembrare solo astratti
o ideali, indaga e propone di rimeditare, nella pratica del divenire, una sorta
di risacralizzazione di tutto ciò che può rendere armoniosa la città di vita:
la musica, la poesia, il gioco, la pittura e la scultura, l’eros, lo sport, il
grande stile nell’architettura e nell’urbanistica, l’atto gratuito del pensare
oltre le proprie condizioni o frustrazioni, che non deve essere separato però
“dal desiderio puro e gratuito di
farlo, di cimentarsi”. Una purificazione possibile, che trova nel rito battesimale la liberazione dal
peccato originale per redimere “la creatura dalla sua impurità nativa e
restituirla al candore”, anche se “la purezza è fugace come la vita dei gigli”.
Ma, attenzione, non bisogna confondersi con il naturalismo storico di un
Rousseau, infatti il mito della natura è un mito moderno, non arcaico e per
giunta artificiale. La natura non è pura ma va purificata, come tutto ciò che
nasce al mondo. In origine è impura e feroce, come gli animali che la popolano
e gli elementi che si scatenano; la natura è anche escrementi e lordure, è
tutto ciò che è ancora grezzo, crudo e incolto; è l’opera umana, è il fuoco che
cuoce e purifica, è l’acqua con il sapore che la deterge, sono la società, la
storia, il rito, il processo chimico a redimerlo, detergerla, purificarla”.
Falsi miti accompagnano
le nostre pene quotidiane, costruite a tavolino con scientifica precisione
dagli strateghi perversi del villaggio globale, dagli illusionisti di falsi
paradisi perduti e ritrovabili nell’illusione alimentata nella corruzione, nel
vizio e nella trasmutazione antropologica e genetica (si pensi soltanto alla
diminuita potenza procreativa del maschio e ad una generalizzata
femminilizzazione che si propone con crescenti campagne mediatiche o quasi
terroristiche nel nome dell’indistinto, della liberazione sessuale assoluta e del progresso senza limiti,
che fanno pure arrivare a registrare punte record di violenza a tutti i
livelli, spesso senza alcune o risibili).
Non è quindi la luce
del mito da riconquistare, una pretesa di purezza assoluta, aggiunge Veneziani,
la quale invece si “accompagna di solito al fanatismo e all’utopia del paradiso
in terra, cioè della perfezione nella vita e nel mondo. Talvolta la
contaminazione, l’incrocio, è una ricchezza per le persone, i popoli, le cose
rispetto la persistenza inerte nella purezza. (…). La vita stessa sorge dalla combinazione delle
differenze, dall’incrocio tra due corpi e due vite; la fecondazione è
un’ibridazione tra un seme e un ovulo. Vivere è mescolarsi, la vita stessa
sorge dall’incontro fra diversi. Parole chiave, assai chiare, contro ogni
razzismo, ogni teoria aprioristica, a favore della vita. La pretesa di ridurre
nel numero l’umanità, porta alla crescita sottozero, voluta da tempo immemore dallo
gnosticismo laicista e libertario di falsi e scienziati che, invece, applaudono
allo svuotamento “umanitario” di interi continenti onde sovvertire le feconde
identità e costruire una pseudo e
sradicata cittadinanza mondiale con un governo dei “puri”, mondialista a guida
tecnocratica.
La società perfetta è
solo possibile nella mente di utopisti e futurologi senza realismo rispetto
all’umano e sfocia o nell’impotenza a migliorare l’esistente o, peggio, nelle
ghigliottine giacobine degli “illuminati”, degli “incorruttibili”, senza inoltre
dimenticare che il perfettissimo è
pure considerato dalla Chiesa stessa – almeno fino ad oggi, perché la mutazione
investe radicalmente anche l’Ecclesia
tutta – un peccato. Ascendere, aspirare alle vette, purificarsi, contemplare,
ricercare e godere la luce sono, invece, vettori possibili di orientamento,
necessari all’umano che, con la pratica della virtù, vuole sinceramente
migliorarsi ed elevarsi nell’ambito di un consorzio civile.
L’esortazione
evangelica vale, a tal guisa, ancora: “essere come serpenti e candidi come
colombe”.
Tuttavia, nessuno può pretendere
di possedere il monopolio della verità, pur sussistendo la Verità e il suo
Principio, e Marcello Veneziani non manca di riferirsi, nel suo libro, anche e
giustamente a San Tommaso d’Aquino e a Vico.
Certo “il pensiero
mitico non offe soluzioni né affronta problemi ma cerca vie d’uscita, una volta
compresa l’essenza tragica della vita, che non ha scampo. È la religione a
prospettare soluzioni, è il pensiero critico a sollevare obiezioni. Il mito non
pone obiezioni è una via d’uscita dal mondo, dal tempo, della condizione umana.
Non fa della vita il valore supremo e il paradigma assoluto, perché è destinata
a finire, come tutte. Se la vita decade e infine cessa, il mito invece
continua. La vita si proietta nel mito. È, in sostanza, il costante riferimento
di Veneziani che si coniuga con l’amor
fati, con un destino che ci trascende. Il mito è, quindi, in tale ottica
“visione dell’invisibile”. Per questo bisogna, oltre e contro il nichilismo, poetizzare la vita, con mente eroica,
interrogare il Mistero e nutrire fiducia nel Ritorno che, per il cristiano, è la Parusia, il rimanifestarsi in
terra di Gesù Cristo.
Per queste e molte
altre ragioni Veneziani, con il tono solenne che si addice alle grandi e
decisive opere, scrive: “Il mito attualizza l’eterno, eternizza l’attuale.
Esporta la terra in cielo. È un ponte e consente passaggi di sponda altrimenti
impossibili”.
Ed è questo- fuori
dagli schermi dell’ovvio o del fanatismo che non ci riguardano - che Marcello Veneziani
ci propone costantemente di fare, per conservare almeno il senso e la verità
della Bellezza.
Una lezione, insomma.
sabato 18 marzo 2017
giovedì 16 marzo 2017
giovedì 9 marzo 2017
L'identità perduta del Policlinico di Palermo
di Tommaso Romano
La cosiddetta intellighentia palermitana vive di
croniche amnesie e di rimozioni da sonno profondo, mentre si crogiola nella
denuncia del sacco osceno (che così fu e resta, sia chiaro) della città
armoniosa del liberty nelle nostre arterie principali. Presi da sacro furore
pure gli stessi eredi che vendettero per sciatti magazzini e appartamenti alle
imprese rapaci, alla mafia e alla politica dei truffaldi in combutta, e nel
quasi silenzio tombale dei più, piangendo calde lacrime ancora e giustamente
per Villa Deliella e collezionando cartoline e libri illustrati del bel tempo
andato per curare il lutto e lo scempio consumato. Così consolandosi e mettendo
a posto la coscienza e non proponendo altro, in concreta sostanza, che la
conservazione dell’esistente, fatto di orrendi palazzoni posteggi, autolavaggi
e depositi. Se qualcuno – come è avvenuto in tutta Europa per altre distruttive
barbarie – indica la via della rinascita volendo ricostruire o almeno
eliminando gli orrori esistenti e restaurando-risanando, lo stresso fronte
conservatore (i veli conservatori del
brutto) insorgono e tutto resta come prima.
La viltà domina
sempre sovrana insieme alla supponenza dei “colti” e “illuminati” di Palermo e
dell’isola intera.
La “capitale
italiana della cultura” (forse qualcuno ritiene abolita la storia, per dire che
non siamo mai stati una capitale? E che non sarà certo un tram ingombrante e un
divieto di transito o un decreto burocratico a far tornare capitale il bel
centro storico), di cui si cantano meraviglie a priori, non si sa se per progetti
di rinascita o per presunti nuovi spazi di vivibilità ora effettivamente negati
e da invece ricostruire e reimpiantare veramente. Ancora si è stati e rimasti silenti (o se non me ne
sono accorto chiedo venia anticipatamente!) su uno degli ultimi delitti
perpetuati in questa mia città infelice: la sistematica opera di sventramento e
sfiguramento di quello che fu il Regio Policlinico Universitario di Palermo.
Naturalmente dato che questo fu concepito, voluto e realizzato per volontà dei
politici e amministratori dell’odiato ventennio (insieme alla monumentalità del
tempo), qualunque colpo inferto diventa così e per queste miserande ragioni,
chirurgicamente positivo. In realtà dovrebbe almeno leggersi la storia
architettonica e urbanistica e conoscere
l’architetto Antonio Zanca (Palermo 1861 – 1958), migliore prediletto allievo
di Damiani Almeyda che a seguito del Regio decreto del 1926 riuscì a completare
una esemplare cittadella della salute nel 1939 consegnando una delle poche,
autentiche opere pubbliche di rilievo dall’Unità ad oggi. (cfr. su tale
argomento Paola Barbera e Maria Giuffrè, a cura di Un archivio di architettura tra Ottocento e Novecento disegni di
Antonio Zanca 1861-1958, Biblioteca del Ceridi, Palermo 2005). Non parlo
degli eterni lavori in corso nello stesso Policlinico (una giungla dal 2007),
parlo invece di “nuovi” padiglioni che potevano ben essere costruiti in altri
spazi vuoti (sempre peraltro adibiti a parcheggi ed è quasi un destino)
adiacenti o ponendo meglio mano finalmente al risanamento della vicina via
Monte Grappa e adiacenze di ulteriori ampie zone e con il coraggio culturale e
civile di abbattere finalmente case fatiscenti e invivibili dell’intera zona
consegnando ai cittadini case adeguate. No, bisognare sventrare e costruire
scatole enormi, è veramente squallido al Policlinico (si salvano uno o due
padiglioni, il resto è peggio dello ZEN) con un olore inverosimile un misto fra
salmone, aragoste e rosso sangue che impressiona il malato, il paziente che
ricordava dalla via Gaspare Palermo l’armonioso ingresso fra palazzine
adeguate, alberi e viali discreti e ancora un agrumeto di fronte, che era la
villa del seminario, poi espiantata per un campo di calcio e infine venduto per
l’ennesimo palazzo informe.
Fate un giro
istruttivo e vedrete, beandovi alla Feliciuzza altre scatole pronte all’uso con
candido alluminio anodizzato e dello stesso oscuro colore sui muri. Che siamo
tutti malati lo disse già Freud, ma così ci si ammala di bruttezza incurabile
alla vista e agli altri sensi. I ”restauri” di singoli padiglioni sono poi un
trionfo di pseudo colori diversificati e francamente incredibili e di
sovrapposizioni degne di un manuale di architettura. Si dirà: serve spazio, le
esigenze prima di tutto, i malati non vivono di bellezza ma di cure. A parte
che la bellezza è terapeutica quanto lo sono i colori, era necessario invece un
disegno organico e progetti sobri per padiglioni necessari mantenendo però e
curando veramente il già esistente.
Ma che
importanza può avere tutto ciò che narro per “intellettuali” e progressisti,
ecologisti da strapazzo e politici? Il popolo guarda sconsolato i nuovi barbari
tra noi e protesta in silenzio non votando. Come dar loro torto. Se un
architetto o un urbanista per bene denunciano questo e altro con proposte
radicali, toccherà forse loro un destino elettorale dello zero virgola
qualcosa, pur onorevole sia chiaro, perché viggono in questa città le
supponenze, le cordate clientelari e le congiure del silenzio come patti
trasversali del nulla che dolorosamente attraversiamo nostro malgrado per
ignavia, prepotenza e vera incultura altrui, sempre progressista però.
Ultimo consiglio
per favore (come usa dire l’uomo
vestito di bianco dal pugno di ferro a chi non consente alla sua personale
misericordia) proporre subito un giro per la citta “redenta” che comprende
tutte le periferie a cominciare dall’Albergheria. Basterà fotografare con una
macchinetta di pochi euro e fare un bel reportage per dimostrare di cosa è
capace la città accogliente. Ai prossimi ludi cartacei di queste autentiche e
non sementabili realtà e disgrazie, pochi in solitudine riscorreranno, pronti
gli altri e come sempre ad applaudire dalla pseudodestra, pseudocentro, e alla
pseudosinistra, concretonulla, retori da strapazzo, politicanti veri e
invenzioni da cabaret.
Reagire
dovremmo. È l’abbiamo pure tentato da una vita. Ma pare sempre più una pura e
pia illusione di solitari impenitenti e
dolenti.
Francesco Cangialosi, "L'isola dei passi perduti" (Ed. Nuova Ipsa)
di Tommaso Romano
Non era facile in 170 pagine di
testo effettivo, potere scrivere un libro a partire dal viceré Caracciolo fino
ai giorni nostri, sulla Sicilia dal punto di vista politico-sociale. Ci ha
messo mano Francesco Cangialosi, già vice segretario dell’Assemblea Regionale
Siciliana con un denso ed agevole saggio dal titolo L'isola dei passi perduti, che è come recita il sottotitolo una Storia istituzionale dell'Autonomia
Regionale Siciliana, (Nuova IPSA Editore, Palermo, 2015), con una bella
copertina tratta da un disegno di Alfonso Amorelli del 1952.
Impresa ardua ma riuscita nella
sintesi efficace e nelle tesi esposte, che - grosso modo - ricollegano l'Autore
al suo autorevole e colto prefatore, Pasquale Hamel che, apprezzando l'opera,
in realtà declina il suo manifesto
antiautonomista e antiregionalista, salvando Don Sturzo e le sue stesse personali
ascendenze (oggi Hamel è iscritto al Partito Radicale). Tuttavia, oltre le
cronache già note, Cangialosi tesse la sua idea di Sicilia con personale
acribia, non disdegnando (anzi…) di intervenire con nette valutazioni e
giudizi, sul terreno delle dispute. Al giudizio positivo e certamente
condivisibile sul Caracciolo e il suo tempo, si passa in rassegna un secolo
fino all'unificazione, con chiare note sulla Costituzione del 1812 e
altrettanto pregnanti valutazioni sulla post-unità citando, ad esempio, D’Ondes
Reggio e le sue forti e veritiere parole. Le tristi e non sempre
"felicissime" vicende siciliane successive, la prima guerra, il
fascismo lontano da ogni autonomismo e regionalismo con l'idea e la pratica
dello Stato-Totalità, portano alla seconda guerra mondiale e alla liberazione
(o invasione?) anglo-americana, al Separatismo e a tutte le problematiche da
contestualizzare, anzitutto.
Sono le pagine più ricche e feconde
del testo di Cangialosi che si sofferma poi sul Regio Decreto n° 455 del 15
maggio 1943 che porta la firma del Re Umberto II, talune linee un misconosciuto
re sabaudo in Sicilia, riprendendo, Vittorio Amedeo II.
Certo, come fa Hamel nei suoi libri
chiari e pregevoli sull'argomento e nella stessa citata introduzione anche
perché ritiene, come chi scrive, un fatto positivo lo Statuto e un fatto
largamente negativo la sua assai incompleta applicazione con il declino dello
stesso istituto autonomistico, grazie a una classe imbelle succedutasi (eccetto i governi Alessi, Milazzo e Majorana,
poi il senatore nel 1972 del MSI - DN) e spesso contigua a poteri centralisti e
alla mafia oltre che assolutamente impreparata. La valutazione di Cangialosi su
Milazzo e il milazzismo è senza appello. Oltre ad Hamel l'autore si riferisce a
Giarrizzo e fa bene. Tuttavia la complessa operazione, prima dell’USCS di
Pignatone e Milazzo, con il primo governo alternativo alla staticità
amministrativa e politica è forse da rileggere. Bastino le testimonianze ampie
di uno dei suoi attivi protagonisti, l'onorevole e assessore all'agricoltura
Dino Grammatico, resa in un aureo libro edito ora da Sellerio insieme alle
testimonianze di un Ludovico Corrao. Altra cosa fu il seguito. Tuttavia, il
giudizio su Milazzo di Cangialosi è impietoso. Ne ha ben diritto, anche se chi
scrive non lo condivide, proprio perché Milazzo fu esponente di un generoso
tentativo, per quanto irrealizzato perché ostacolato proprio dai poteri forti e
dalla Chiesa egemone
Noto di straforo che Milazzo
concluse la sua umana avventura politica non nell'eremo (come tutti sostengono)
ma nel Centro Politico Italiano dell'avvocato Carlo Francesco D’Agostino, i cui
intenti lo stesso Milazzo declinò sul giornale del Centro, "d’Alleanza
Italiana" e di cui mi sono occupato.
Anche l'azione di governo di Rino
Nicolosi andrebbe rivisitata, senza il velo dei problemi che lo colpirono forse
non a caso. Ma questo non riguarda la cavalcata felice di Cangialosi, che è
persuasivo anche nella parte finale del saggio che si può racchiudere
nell'affermazione efficace dell'autore.
La Sicilia "senza idee vaga
nel deserto dell'immobilismo, della rassegnazione, del vittimismo".
Si può in tal modo giungere a una
interrogazione dirimente: il fallimento dell'Autonomia (e qui concordo con
Hamel) è palese e forse non ricostruibile o restaurabile, fra sprechi e palesi
inefficienze, che pure - non dimentichiamolo, perché questa è la democrazia, a
chi piace - è stata voluta dall'elettorato che ha scelto, ad esempio, un
Crocetta.
L'altra tesi è la rifondazione
dello Stato che, partendo dalla specificità che pure esistono e non si
comprende il motivo per il quale bisognerebbe livellare e far diventare tutto
"liquido" (secondo la definizione, che era critica di Bauman).
L'unità si costruisce nelle differenze da armonizzare come un fiume vive di
affluenti. Il problema è il riferimento autorevole, la continuità del potere
temperato dai corpi intermedi (torna la lezione di Sturzo, tradita) e dalla
presenza delle categorie, certo con spirito partecipativo e non egoistico.
Simboli e miti, insomma, servono ad un popolo e ad una nazione tanto quanto
l'efficienza. Senza un'anima un popolo muore. Come sta morendo il popolo
siciliano, italiano ed anche europeo.
La vera modernità, lo dico
provocatoriamente ancora, come da sempre sostengo non solo le teoreticamente, è
la tradizione civile e spirituale la storia vera sprofondata da mitologie
fasulle (gli arabi-berberi “civilissimi” ad esempio, in ciò concordando con
Hamel in pieno).
Conclusivamente va dato atto a
Cangialosi di un vivo e retto sentire civile che lo pongono certamente fra quei
cattolici-democratici degni di stima e rispetto e che ci ha consegnato un testo
ricco e onesto di notazioni e considerazioni che, come si è potuto leggere in
queste note, non certo esaustive, aprono riflessioni e possibili scenari. Forse
anche di una eventuale - anche se per chi scrive è assai improbabile -
rinascenza.
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