lunedì 21 novembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

LA DISTINZIONE COME NOBILTÀ NEI CAVALIERI DELLO SPIRITO
di Giuseppe Bagnasco



  Dopo l’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel e il più vetusto Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, tra i più rinomati e che si “distinguono” dai tanti, per gli argomenti similari trattati nel campo della disquisizione antroposociologica, ecco l’arrivo sul tavolo delle nostre “distrazioni”, quasi a completamento di una sorta di Trilogia, L’Elogio della Distinzione (Fondazione Thule Cultura – Palermo 2016) del filosofo Tommaso Romano. Non è un trattato ma un “manifesto”, una riflessione non confessionale, sullo stato e condizione contingente e spirituale a cui è pervenuta la società contemporanea del mondo che per semplificazione chiamiamo “occidentale”. Un manifesto, dicevamo, che si può leggere alla stregua di un manuale di regole educative, senza per questo assumere i connotati di una filippica sebbene a tratti appaia come significativa e volitiva “omelia”. Né poteva essere diversamente per l’argomento affrontato e che spazia per tutto l’arco della devianza nei comportamenti “tradizionali” dell’uomo odierno.
   Per potere scrutare a primo acchito il poderoso testo e carpirne le parti più salienti, visto che è composto da ben tre “corpi” relativi ad un saggio dell’Autore, un saggio dell’illustre Amadeo-Martin Rey y Cabieses e un ricco e unico Florilegio di Autori, ci viene in soccorso il sottotitolo: Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie. Non c’è alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una esplorazione storica e sociologica su ciò che questi “titoli” hanno rappresentato e che l’Autore  sottolinea con l’intercalare il testo di disegni riferiti a momenti d’azione della Cavalleria  d’un tempo con schiere cristiane affrontanti le saracene e la raffigurazione nell’antifrontespizio della sagoma idealizzata del Krak (fortezza crociata in Siria) dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme divenuti poi di Rodi, infine di Malta e oggi rappresentati dallo SMOM.
   Tommaso Romano, non nuovo nell’esposizione di “tesi teologali” sullo spirito, da buon cristiano di fede qual è, mette al servizio del dettato di Dio, la vestitura armata del distinto “Cavaliere dello Spirito”. E lo fa discettando sui temi sopraindicati, a cominciare dal concetto di Aristocrazia, distinguendo quella di spada da quella dello spirito.  L’aristocratico, nel composto della semantica greca di aristòs (eccellenza) e cratòs (potere di governo), delinea una persona che si governa da sé e per espansione, colui che si isola dalla folla. E per folla, come afferma l’Autore, s’intende quanti sono accomunati nella volgarità, rozzezza, dozzinalità e violenza del comportamento nelle parole come negli atti, fino ai modi. Tuttavia, sempre nel proseguo della ratio in Romano, l’isolarsi dalla realtà, l’eccessivo autocontrollo, compresa la mancanza di ironia, non consentono l’educazione alla nobiltà che, di contro, si consegue nella capacità del saper scegliere il confacente rapporto con il prossimo. L’aristocratico è pertanto la persona distinta, custode di quei valori che dovrebbero armare  i suddetti Cavalieri per conquistare “nelle steppe del nulla, la Gerusalemme Celeste. Il tutto”. Oggi che il “progressismo”, l’innaturale livellamento sessuale, l’omologazione alla massificazione, portano ai conseguenti disvalori, fra tutto questo declinare un posto privilegiato è riservato ad una virtù d’eccellenza: l’Onore.
   Ora, a prescindere dalle valutazioni sottolineate dallo storico Franco Cardini che lo conforma a dignità personale, reputazione e onorabilità  comportanti il diritto della persona al rispetto e alla stima, bisognerebbe qui aprire uno spaccato su questa virtù che, a parere non solo nostro, incardina tutte le qualità del “buon uomo”, del buon cristiano ma che non si riflette nel diverso homo bonus del poeta Marziale. Incominciamo, purtroppo, col dire che le culture della menzogna, dell’ipocrisia, hanno inferto una profonda e dolorosa ferita nel comportamento deontologico degli uomini e in particolare nel malinteso senso dell’onore soprattutto se riferito alla latina sacralità della parola data, pacta servanda sunt, come comprova, per mantenerla, il  sacrificio del console Marco Attilio Regolo. Pensiamo ad esempio a quanti giustificano un loro scomposto agire con un’alzata di spalle o con quel “Je m’en fous”, di recente pronunciato dal Presidente della Commissione Europea Juncker e che fa comprendere quale ingloriosa fine abbia fatto quel certo bon ton!. Ma la trasgressione del senso dell’onore ha antica data giacchè la ritroviamo, spulciando la mitologia greca o passi della Bibbia, nei racconti del “padre” Zeus che ricorreva al travestimento e finanche alla sostituzione di persona per sedurre con l’inganno le belle mortali o come nella vergognosa e subdola condotta di Re David quando mandò in guerra, in prima linea e quindi alla morte Uria, lo sposo della bella Betsabea che aveva sedotto e che comunque poi da vedova sposò. E ancora, non possiamo elencarli tutti, nel tradimento fatto da un certo Horatio Nelson nei confronti dell’Ammiraglio Caracciolo (la resa in cambio della vita) e che invece fece impiccare sulla murata della sua Victory contravvenendo come un volgare pirata alla parola data. Infine, ricorrendo alla Storia, ancora sull’onore tradito, quando Enrico IV di Francia pur di mantenere salda la sua corona abiurò alla sua fede protestante e abbracciò quella cattolica con un probabile e analogo “Je m’en fous” nel famoso “Parigi val bene una messa!”. Ma i dettati del codice d’onore hanno sempre governato, lungo il corso dei tempi, gli uomini giusti e probi e ciò sin dai codici cavallereschi del Medioevo giungendo per alcuni tratti, perfino a quelli non scritti dell’onorata società, uniformemente intesa in tutto il nostro Meridione e giunta, con l’emigrazione “imposta” dopo la sua piemontesizzazione, fino alla “frontiera” dell’Ovest americano. Erano codici che tutelavano l’onestà della donna, intoccabilità dei bambini, la parola data, con in aggiunta il divieto di sparare alle spalle o ad un uomo disarmato. Norme non scritte nella vita che, fino all’abolizione formale del feudalesimo, si conduceva nei feudi e che era regolata da un castaldo, un soprastante, un fattore che amministravano la giustizia “parallela” essendo i feudi luoghi spesso “inaccessibili” anche alle compagnie rurali dei governi del tempo. Nacque lì la vecchia “onorata società” da non confondere con la successiva malavita organizzata o coi “picciotti” di La Masa che furono, ma ancor prima in letteratura nei manzoniani “bravi” di Don Rodrigo o nei severi “tribunali” della setta panormita dei Beati Paoli di natoliana memoria, il loro capostipite. Era quest’ultima una “Confraternita” segreta, come afferma il Villabianca, di uomini valenti che perseguivano i valori della difesa dei deboli e della giustizia pur rimanendo nelle loro feroci sentenze ferventi religiosi e credenti in Dio e al Santo di Paola, a cui si richiamavano. A uomini di tal fatta, a questi “uomini d’onore”, si deve l’appellativo di “cristiano”. Ma torniamo all’Elogio della Distinzione e al tema della Ecosofia affrontato dal filosofo Romano nel riconsiderare il senso della abitazione in cui si vive.
   Al pari di Francesco Alberoni che nel novero della scienza della comunicazione include quella che avviene attraverso il vestire certi abiti dando a questi la facoltà di dare un messaggio su chi li indossa, così il Nostro attribuisce lo stesso significato all’arredamento e al gusto di disporlo in un certo modo nella dimora di una persona dalle qualità “aristocratiche”. E questo come proiezione della propria identità dedicando tra gli arredi anche uno spazio ai ritratti dei propri antenati a guisa dei Lari e dei Penati dei Latini. Completano, conclude Romano, la bellezza della dimora, non necessariamente un palazzo, il poter accudire l’eventuale giardino di casa o il curare il collezionismo al pari di un personale museo, considerando entrambi come manifestazioni secondarie del gusto del dimorante. Con questo fare si può contrastare, aggiunge l’Autore, il completamento dell’ecatombe che incalza e principalmente col formare, con persone che in ciò si riconoscono, una sorta di patriziato civico di pochi ma decisi “Cavalieri”. Titolo di nobiltà, ammonisce il Nostro, che non deve essere acquisito tramite sedicenti Istituti che l’elargiscono dietro compenso essendo insita la possibilità di poter incorrere così, in quel “Todos Caballeros” che l‘imperatore Carlo V concesse a certi postulanti sardi che lo reclamavano. Frase che oggi viene usata in tono dispregiativo annullando di fatto la distinzione o il prestigio dei pochi che lo meritano.
   Fatto salvo questo primo “tomo” che forma il “corpus iuris” principale dell’Elogio della Distinzione, essa incorpora altresì una poderosa antologia, un Florilegio di Autori che espongono le loro frasi, trattazioni, aforismi nel reticolo degli argomenti qui esposti, con particolare riguardo al significato di Aristocrazia. Pur tuttavia di questi Eccellenti non ci è possibile citare tutti i nomi dal momento che in dettaglio l’elenco supera le cento pagine. Fa da cornice a tanto disquisire, un prezioso saggio del nobile spagnolo Don Amadeo-Martin Rey y Cabieses, storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che ne approfondisce lo studio, con un particolare riguardo a quello genealogico italiano. Il saggio dell’Illustre, Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma, risulta diviso in Nobleza, Aristocracia e Caballeria, speculari in qualche modo al sottotitolo dell’Elogio della Distinzione. Nella reflexion final l’Illustre raccomanda il rispetto della palabra dada, la bondad y la generosidad e la valentia y la humildada de corazòn perché solo la loro actuaciòn es la mejor aristocracia , cioè quella del poder de la bondad. 
   Alla termine di queste note, una riflessione, anche se non esaustiva, di quanto ci resta, speriamo in seguito non in briciole di memoria, della meritoria opera del “mosaicosmico” Magister. Senza scadere nella facile apologia di maniera, si resta “impressionati” da questo album di fotografie-commentario che, senza tema di supponenza, potremmo definire “De humanitate destructa”, giusto per parafrasare i commentari cesariani, nonchè coinvolti dall’afflato che traspare dalla malcelata angoscia con cui l’Autore esamina l’uomo sedotto e concupito dalla Tecnolatria dalla quale non si può distaccare senza il paventato pericolo di non apparire “politically correct”. Il richiamo risulta un accorato appello a quanti si avviano ciecamente verso l’abisso dell’anima trascinando con sé duemila anni di cammino e di acquisizione di una civiltà della quale restano testimoni ineguagliabili città uniche come Atene, Roma, Alessandria, Gerusalemme, Venezia, Pietroburgo. Un richiamo quindi per impedire a costoro di non finire aggrappati, in un rigurgito di ravvedimento, a quella “Zattera della Medusa” che tanto bene rappresenta la deriva di uomini disperati, il dipinto di Theodore Gèricault. A ben vedere, l’Elogio della Distinzione costituisce una sorta di testamento spirituale del Cavaliere dello Spirito Tommaso Romano, appartenente purtroppo all’esausto filone di un certo nuovo romanticismo, non letterario ma spirituale nel senso che si richiama al Passato vestendo la parola di “Redentore” di una certa cultura. Un testamento spirituale, dicevamo, che si coglie in questo Discepolo della Cultura che quale Pellegrino del Cosmo chiude questo pregevole lavoro, con fare quasi colloquiale, con un congedo, certamente non occasionale. Egli infatti inserisce al confine dei “tomi” trattati, un testo dal significativo titolo “Congedo al cafè de Maistre”. E volutamente, prendendone a prestito il nome, sceglie per siffatto “eremo senza terra”, l’immaginario ricovero in un Caffè, posto di fronte il mare nel Foro Borbonico (oggi Italico), dove in una atmosfera pregnante di “art nouveau”, si ritrova a scrivere, tra un caffè e il centellinare di un Porto, avvolto nell’aria da una coinvolgente musica mozartiana, una lettera, quasi una immaginaria “epistola apostolica” rivolta ad una civiltà al tramonto. In questa, da buon Anacoreta occulto, chiama alla resistenza con quel pudore, riserbo, dignità,  sensi comuni ai pochi frequentatori di quel Caffè, anche se ritiene che tutto è perduto, riprendendo in ciò la frase di Francesco Primo di Francia nell’infausto giorno di Pavia, nel messaggio alla propria madre, “Tutto è perduto fuorchè l’onore”. Ed è nel nome di queste virtù e dell’onore che il Romano, come in un battesimo liturgico, rinuncia al satana della egemonia tecnologica e alla dittatura del pensiero unico nello stesso modo in cui rinuncia agli applausi dei falsi adulatori, esprimendo come unica aspirazione quella di essere lasciato in pace dentro un immaginario Chiostro. E’ nel contesto di queste note che il Filosofo appare nelle vesti più dimesse dell’ordinario umano, svelando una sorta di stanchezza per l’impari lotta contro questo mondo destinato al declino, riponendo però l’ultima speranza nel salvataggio ad opera della divina Provvidenza. Si chiude così questa antologia, questo breviario-manuale di concetti, richiami, esortazioni che, iniziati con la Distinzione, anima della nobiltà del cuore e dello spirito, giungono al termine di questo excursus, alla malinconia nel corpo senza tuttavia coinvolgerne l’anima.

martedì 15 novembre 2016

Fausto Gianfranceschi la scrittura come coscienza e testimonianza

di Tommaso Romano

Ho sempre stimato e non poco ammirato Fausto Gianfranceschi (Roma 1928-2012), scrittore di saggi, romanzi e soprattutto di aforismi, non inferiori a quelli di un Cioran o di un Gòmez Dàvila. Ne ho ripercorso in pochi giorni tutti i libri che di lui possiedo e già più volte letti, trovando anche qualche articolo in riviste e ritagli tratti dal “Tempo”, quotidiano romano di cui fu a lungo (20 anni) responsabile della terza pagina e che meriterebbero certamente  una ristampa. Ma questa del “Tempo” di Gianfranceschi e dei suoi collaboratori,  è una storia di cui forse un giorno qualcuno scriverà, senza indulgere,  si spera,  nell’autocitazione.
Ritengo un privilegio l’averlo frequentato a Roma alla Fondazione Volpe ed al  SLSI – Sindacato Libero Scrittori Italiani, ed aver avuto Fausto ospite a Palermo, per convegni e conferenze e perfino avergli assegnato un Premio al Città di Bolognetta in compagnia di due grandi: Pio Filippani Ronconi e Vittorio Vettori. Uomo raffinato e capace di fervide ironie gentili, credente senza essere un clericale baciapiede  , riservato ma con la gioia consapevole della unicità della vita, anche quando questa si fece durissima da digerire. Fumatore mai pentito, neppure di fronte al cancro, da cui per dieci anni scampò due volte.
Ebbe il dolore del lutto atroce dei figli Giovanni e Federica,  a cui dedicò due libri di rara intensità, e una donna che amò teneramente e che fu la sua forte compagna: Rosetta.
Amico di Julius Evola,  del quale fu discepolo, senza tuttavia seguirne per intero la visione, fu uomo coraggioso e pugnace nel dopoguerra nei FAR , subendo ingiuste persecuzioni.
Scrisse alcuni ottimi romanzi, alcuni di questi pubblicati da Alfredo Cattabiani: Il segno sulla mano (1968), Giorgio Vinci psicologo (1983), L’ultima vacanza (1972), Belcastro (1975), Il senso del corpo e i saggi Svelare la morte per la Rusconi degli anni Settanta. Autore di  un saggio su Buzzati e di uno su Tobino, impeccabili nella sintesi, nonché autore per Volpe del testo Teologia elettrica. Alcune raccolte di racconti La casa degli sposi (1980) e gli aforismi, rimangono certamente fra le sue scritture eccelse. I titoli stessi ne rivelano la linea e lo spessore: Diario  di un conformista, Stupidiario della sinistra, Il reazionario. L’ultimo, Lode della torre d’avorio (Ares, Milano 2007) riassume tutto lo scrittore, per intero l’uomo e il suo stile, consegnati in frammenti lucenti.
Parole terse e incisive, di cui voglio dare un breve resoconto,  nell’amichevole e riconoscente memoria, grato per le sue attenzioni alle mie  poesie, e per il suo considerare e vivere la cultura non come impegno soltanto, ma come milizia dura  e vitale lui che in fondo,  era o diceva si essere, un pigro.
Ho ritrovato pure i suoi articoli su “Imperium” di Enzo Erra (che pure voglio ricordare come uomo  integro e fedele della parte sbagliata), al tempo dell’impegno politico negli anni Cinquanta e i più recenti  testi su “Intervento” e “La Destra”. Nel 1984 vinse il Premio Napoli e fu finalista al Premio Strega.
Nel tempo sono spesso ritornato a leggere di questo fiero antimoderno anche un saggio che non dovrebbe mancare a chi fa professione di libertà, nell’epoca nostra delle nuove schiavitù, sostenute come  “umanitarie”  conquiste. Questo è il titolo: Il sistema della menzogna e la degradazione del piacere.
Torno allora e finalmente agli aforismi ultimi di Fausto, sottolineando intanto che la torre d’avorio è pure un titolo regale, ovviamente dimenticato, per la Madonna, appunto Turris eburnea, onde celebrarne l’invisibilità ed il simbolo, ove è “custodita l’anima che non può esporsi alla tempesta come una banderuola di vento” come scrisse Fausto.
Ecco allora altre gemme: “La mia è una vita a bassa tecnologia”; “Non soltanto forme. Forme e ritmo”; “Non capisco i passatempi semmai  mi piacerebbe  non far passare il tempo; “Indignarsi, una a una certa lontananza”; “La fraternità con i libri e forse la più alta forma di vita sociale”; “La letteratura ha molte più idee degli psicologi e dei sociologi”; “La poesia è la musica della conoscenza”; “È importante leggere, ma è ancora più importante scegliere cosa non leggere”; “Il mio linguaggio e il mio contegno sono la mia filosofia”; “Non mi affretto, ormai ho tutta la vita dietro di me, che mi frena”; “L’arte della vita è l’arte del tessitore. Tanto più stretti e fitti sono i nodi dell’emozioni, tanto più vasta e piena di  fa l’esistenza”; “Il buonismo è il lato viscido della cattiveria”; “Quando scrivo ritraggo me stesso perché nessuno può rappresentare il mondo per intero”; “Quando ero giovane ho odiato, poi non ho odiato nessuno. Disprezzato sì”; “Quando mi sfiora un’ombra di amarezza perché ormai mi cercano pochi amici, mi dico: per tutta la vita hai voluto essere libero, hai difeso accanitamente la tua solitudine, non ti sei legato a nessuno, e adesso finalmente ti lasciano solo”; “Per evitare spiacevoli sorprese, non pretendo dagli altri quello  che pretendo da me stesso”; “Non sto tanto bene, spero nell’aldilà  di riprendermi”.
Come si è potuto leggere,  si è in presenza di un grande scrittore e pensatore, da riscoprire, integralmente capace di esercitare con fermezza l’indipendenza e praticare la lontananza  per vocazione, per necessità  e per disgusto.
E per Amor fati.