di Tommaso Romano
Stefano Vilardo e Tommaso Romano |
In un suo puntuale saggio Aldo
Gerbino parla di Stefano Vilardo (Delia, 1922) come di un “poeta tra presente e
tradizione”, definizione a tutto tondo con cui brevemente lo presentiamo.
Sodale, compagno di classe e amico
di un’intera vita di Leonardo Sciascia (che dedicherà molte attenzioni critiche
a Vilardo), il nostro Stefano con Antonio Motta studioso sciasciano di valore,
ha dedicato un gustoso e rivelativo volumetto, edito da Sellerio, dal titolo A scuola con Leonardo Sciascia, che ne
percorre il sodalizio umano, familiare, culturale (ambedue furono insegnanti
elementari), l’amicizia, con pennellate di straordinaria valenza espressiva sul
nostro maestro di Racalmuto, autentica coscienza critica della Sicilia e non
solo, del ‘900.
L’esordio di Vilardo data la metà
degli anni cinquanta con il volumetto I
primi fuochi, edito da Sciascia di Caltanissetta, a cui faranno seguito
altre raccolte liriche fra cui Gli
astratti furori dopo Tutti dicono
Germania Germania e ancora la raccolta
Il frutto più vero. Impasto originalissimo di memoria, sofferta ironia,
scavo nel quotidiano, eco di violenza, con abbandoni autobiografici, la poesia
di Vilardo vive in e di una Sicilia arcaica e tuttavia non idealizzata, vera
comunque nella povertà profonda, straziata dal potere (da tutti i poteri) e dal
malaffare anche mafioso, impastato di “miraggi e pene” come ne scriveva
Vincenzo Consolo, senza dimenticare la forza perduta per sempre della “comunità
solidale” che era una condizione reale dei paesi siciliani.
Scrittore scevro da protagonismi,
a volte ostico, appartato Vilardo ha donato con la sua opera poematica Tutti dicono Germania Germania pubblicata
prima da Garzanti (1975) e poi da Sellerio (2007), con bella postfazione di Gerbino, e
articolata in 42 poemetti che disegnano liricamente di “quando i clandestini
eravamo noi”. Certamente si tratta del capolavoro vilardiano che lo pone fra i
classici siciliani del nostro tempo. Come acutamente afferma Giuseppe Saja in
un suo articolo del 1992 le testimonianze dirette e raccolte da Vilardo sugli
emigranti e la loro condizione, ovviamente con geniale rielaborazione lirica,
si “prestavano non tanto ad una riscrittura in prosa, quanto a una
trasposizione in poesia, in versi liberi che avrebbero dovuto “inchiordare” l’attenzione
dei lettori sulla piaga dell’emigrazione, sugli effetti disumani dello “sradicamento”
di tanti contadini meridionali, costretti alla mancanza di lavoro a battere
suoli stranieri non sempre ospitali”.
Sciascia scrisse nell’introduzione, che il pregio maggiore
dell’opera vilardiana consisteva nella “ricreazione” di vicende che si
impongono per la loro alta drammaticità fra ripetizioni anacoluti, per una
realtà che è anche riflessione esistenziale, documento umanissimo, dolore non
sempre redimente sullo sfondo di uomini attratti da un benessere non sempre
reale che lasciano le miniere, i campi, verso un nuovo disidentico paesaggio.
Temi ricorrenti che ritroveremo
nel tessuto narrativo degli Astratti
furori dove il tessuto etno-antropologico e la rielaborazione della radice
popolare si incontrano con la violenza gratuita e la stupidità del Ventennio,
narrato a sua volta e senza conformismi in Uno
stupido scherzo senza tacere la decadenza socio-culturale successiva in
grado di far perdere all’intellettuale perfino la sua funzione di denuncia e
coscienza critica, come Vilardo ha a voce chiara denunciato in una intervista. Come
ha scritto Andrea Camilleri “ Vilardo trascende il reportage in versi per
assurgere alla dimensione di una poesia senza aggettivi”.
La lingua di Vilardo, ben prima di
altri sperimentatori, è una originale sintesi di quotidianità infarcita dal
nostro efficacissimo idioma, con citazioni di una cultura viva e palpitante,
profonda e tuttavia mai appariscente, vigile sempre, anche nelle descrizioni
dell’antieroe Lorenzo Cutrano di Una sorta
di violenza, che si snoda nel clima retorico e totalitario tra le due
guerre.
Vilardo è quindi un testimone, un
ricreatore di realtà e di miti senza retorica sacrale (porrei una sorta di
parentela con il grande Giuseppe Bonaviri), senza esibire soverchie illusioni e
speranze di trascendenza, il suo oltre che testo letterario di alto valore è
documento antropologico, denuncia delle ingiustizie, anche delle difficoltà
dell’esistere, ai limiti del nichilismo. Tuttavia il viaggio di Vilardo è
sempre scavo, anche religioso malgrado le apparenze, mai mera cronaca
raccontata, scavo di sé appunto e della propria terra nella parola intesa come
unica possibilità, anche quella che ci appare come la più semplice del
linguaggio comune, non trascurando nel suo originale linguaggio simboli,
metafore, rimandi, consuetudini, proverbi (è recente l’edizione critica di
testi di Salamone Marino) nella consapevolezza che i furori non mutano né storia né vita. E la parola di Vilardo che si
pone, in sostanza, come scriveva Claudio Marabini “ con la discrezione di un’ombra
che pretende soltanto di porre un sigillo d’umanità”, nel tempo che scorre tra
memoria e sangue.
Da Vittorini a Dolci, da Brancati
a Bufalino, a Sciascia, Buttitta e Fortunato Pasqualino, Vilardo si iscrive di
diritto nella grande tradizione letteraria isolana che in Verga e De Roberto
hanno i capostipiti moderni, accompagnando una rara capacità di trasmettere al
lettore realismo, umori e sensazioni, tutti elementi apprezzati dalla critica
più puntuale e attenta di varie latitudini ideologiche da Fausto Gianfranceschi
a Tano Gullo.
Certo Sciascia rimane per Vilardo un
esemplare modello permanente nella condivisione, nell’amicizia e nella pratica
letteraria.
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