lunedì 27 luglio 2015

Stefano Vilardo tra furore e memoria

di Tommaso Romano 

Stefano Vilardo e Tommaso Romano
In un suo puntuale saggio Aldo Gerbino parla di Stefano Vilardo (Delia, 1922) come di un “poeta tra presente e tradizione”, definizione a tutto tondo con cui brevemente lo presentiamo.
Sodale, compagno di classe e amico di un’intera vita di Leonardo Sciascia (che dedicherà molte attenzioni critiche a Vilardo), il nostro Stefano con Antonio Motta studioso sciasciano di valore, ha dedicato un gustoso e rivelativo volumetto, edito da Sellerio, dal titolo A scuola con Leonardo Sciascia, che ne percorre il sodalizio umano, familiare, culturale (ambedue furono insegnanti elementari), l’amicizia, con pennellate di straordinaria valenza espressiva sul nostro maestro di Racalmuto, autentica coscienza critica della Sicilia e non solo, del ‘900.
L’esordio di Vilardo data la metà degli anni cinquanta con il volumetto I primi fuochi, edito da Sciascia di Caltanissetta, a cui faranno seguito altre raccolte liriche fra cui Gli astratti furori dopo Tutti dicono Germania Germania e ancora la raccolta Il frutto più vero. Impasto originalissimo di memoria, sofferta ironia, scavo nel quotidiano, eco di violenza, con abbandoni autobiografici, la poesia di Vilardo vive in e di una Sicilia arcaica e tuttavia non idealizzata, vera comunque nella povertà profonda, straziata dal potere (da tutti i poteri) e dal malaffare anche mafioso, impastato di “miraggi e pene” come ne scriveva Vincenzo Consolo, senza dimenticare la forza perduta per sempre della “comunità solidale” che era una condizione reale dei paesi siciliani.
Scrittore scevro da protagonismi, a volte ostico, appartato Vilardo ha donato con la sua opera poematica Tutti dicono Germania Germania pubblicata prima da Garzanti (1975) e poi da Sellerio (2007), con bella postfazione di Gerbino, e articolata in 42 poemetti che disegnano liricamente di “quando i clandestini eravamo noi”. Certamente si tratta del capolavoro vilardiano che lo pone fra i classici siciliani del nostro tempo. Come acutamente afferma Giuseppe Saja in un suo articolo del 1992 le testimonianze dirette e raccolte da Vilardo sugli emigranti e la loro condizione, ovviamente con geniale rielaborazione lirica, si “prestavano non tanto ad una riscrittura in prosa, quanto a una trasposizione in poesia, in versi liberi che avrebbero dovuto “inchiordare” l’attenzione dei lettori sulla piaga dell’emigrazione, sugli effetti disumani dello “sradicamento” di tanti contadini meridionali, costretti alla mancanza di lavoro a battere suoli stranieri non sempre ospitali”.
Sciascia scrisse nell’introduzione, che il pregio maggiore dell’opera vilardiana consisteva nella “ricreazione” di vicende che si impongono per la loro alta drammaticità fra ripetizioni anacoluti, per una realtà che è anche riflessione esistenziale, documento umanissimo, dolore non sempre redimente sullo sfondo di uomini attratti da un benessere non sempre reale che lasciano le miniere, i campi, verso un nuovo disidentico paesaggio.
Temi ricorrenti che ritroveremo nel tessuto narrativo degli Astratti furori dove il tessuto etno-antropologico e la rielaborazione della radice popolare si incontrano con la violenza gratuita e la stupidità del Ventennio, narrato a sua volta e senza conformismi in Uno stupido scherzo senza tacere la decadenza socio-culturale successiva in grado di far perdere all’intellettuale perfino la sua funzione di denuncia e coscienza critica, come Vilardo ha a voce chiara denunciato in una intervista. Come ha scritto Andrea Camilleri “ Vilardo trascende il reportage in versi per assurgere alla dimensione di una poesia senza aggettivi”.
La lingua di Vilardo, ben prima di altri sperimentatori, è una originale sintesi di quotidianità infarcita dal nostro efficacissimo idioma, con citazioni di una cultura viva e palpitante, profonda e tuttavia mai appariscente, vigile sempre, anche nelle descrizioni dell’antieroe Lorenzo Cutrano di Una sorta di violenza, che si snoda nel clima retorico e totalitario tra le due guerre.
Vilardo è quindi un testimone, un ricreatore di realtà e di miti senza retorica sacrale (porrei una sorta di parentela con il grande Giuseppe Bonaviri), senza esibire soverchie illusioni e speranze di trascendenza, il suo oltre che testo letterario di alto valore è documento antropologico, denuncia delle ingiustizie, anche delle difficoltà dell’esistere, ai limiti del nichilismo. Tuttavia il viaggio di Vilardo è sempre scavo, anche religioso malgrado le apparenze, mai mera cronaca raccontata, scavo di sé appunto e della propria terra nella parola intesa come unica possibilità, anche quella che ci appare come la più semplice del linguaggio comune, non trascurando nel suo originale linguaggio simboli, metafore, rimandi, consuetudini, proverbi (è recente l’edizione critica di testi di Salamone Marino) nella consapevolezza che i furori non mutano né storia né vita. E la parola di Vilardo che si pone, in sostanza, come scriveva Claudio Marabini “ con la discrezione di un’ombra che pretende soltanto di porre un sigillo d’umanità”, nel tempo che scorre tra memoria e sangue.
Da Vittorini a Dolci, da Brancati a Bufalino, a Sciascia, Buttitta e Fortunato Pasqualino, Vilardo si iscrive di diritto nella grande tradizione letteraria isolana che in Verga e De Roberto hanno i capostipiti moderni, accompagnando una rara capacità di trasmettere al lettore realismo, umori e sensazioni, tutti elementi apprezzati dalla critica più puntuale e attenta di varie latitudini ideologiche da Fausto Gianfranceschi a Tano Gullo.
Certo Sciascia rimane per Vilardo un esemplare modello permanente nella condivisione, nell’amicizia e nella pratica letteraria.

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