di Tommaso Romano
Non sono pochi i libri di memorie
di aristocratici siciliani, scritti o dettati, e/o pubblicati in memoria capaci
di suscitare l’interesse non solo di una fetta di lettori appassionati e di
cultori di tradizioni patrie, ma anche utilizzati per ricostruire una storia di
famiglie molto spesso complessa , articolata e ricca, che si pretende di
obliare o di mortificare – in troppe snobistiche occasioni – come un residuo da
cui disfarsi perché ingombrante, impegnativo, e forse perché interroga la
coscienza degli ignavi e dei responsabili della deturpazione anche edilizia e
del paesaggio, unite al colpevole disinteresse delle “autorità”, alle mani
mafiose e a volte politiche stese sui patrimoni ceduti e/o sottratti con il
raggiro, con la violenza o con artigli voraci.
Una storia ancora da ricapitolare
per intero, dalla parte di chi ha fatto la storia di Sicilia rispetto agli
incapaci sciacalletti, alle macchiette, ai ladri e delinquenti che da troppi
decenni infangano l’isola e la manomettono gettandola nel caos e nel disgusto,
nel saccheggio e nello sfregio alla sua millenaria e, diciamolo gloriosa
storia.
Biografie, storie, aneddoti,
cedimenti e resistenze della parte nobile che l’indimenticabile Amico Bent
Parodi di Belsito non smise mai di riproporre e sottolineare a partire dalle
vicende, dagli intrecci fra successi, tonfi, rovine e orgogliosi ritiri in
solitudine, ad appannaggio di straordinari personaggi sui cui, appunto, le memorie proposte risultano
avere un peso notevole da non disgiungersi dal fascino e dal rammarico che
prende leggendo le loro pagine o le loro biografie. Non tutti i capolavori letterari,
sia chiaro, ma pezzi, tasselli utilissimi per comprendere il valore, le contraddizioni,
il peso dell’aristocrazia e di colore che hanno saputo restare in piedi in
campi molto diversi, o hanno saputo conservare preservare la bellezza che il
volgo, gli arricchiti illecitamente, la borghesia dei “villini” non poteva
comprendere.
Storie a volte emblematiche, a
volte tragiche, ma storie, vicende vere, anche – per non pochi – nel crepuscolo
del declino inarrestabile e nel cupio dissolvi.
Certamente, capostipite indiscusso
di tali memoriali memorabili dovrebbe essere giustamente considerato il famoso
Marchese Francesco Maria Emanuele e Gaetani di Villabianca con i suoi opuscoli
infiniti, minuziosi, a volte pedanti sulla società settecentesca, non solo
aristocratica. A cui è giusto aggiungere il poligrafo reazionario e
tradizionalista Vincenzo Mortillaro di Villarena, che mi pregio aver restituito
alla luce che gli è dovuta.
Ma il filone a cui mi riferisco, anche
a causa della fine della regalità in Sicilia e nel resto del continente, data
appunto a partire dai testi che, nel periodo a noi più contemporaneo,
indubbiamente hanno in Giuseppe Tomasi di Lampedusa e nel Suo immortale Gattopardo , la pietra miliare, che ha
dato via alla scia delle memorie proprie e di famiglia intessute fra
religiosità, affari, politica, amori, eroismi, dissesti finanziari, bella vita
e povertà, professioni borghesi e voluti annullamenti di stato, in nome di una
presunta novella eguaglianza che si è tradotta nel livellamento verso il basso.
Va appena ricordato che tutte le
famiglie assurte a distinzioni premiali e onorifiche e graziate di titoli e di
prebende, hanno avuto i loro fondatori, non nobili . come dire che la nobiltà
dovrebbe essere per tutti i dotati di virtù, una sorta di aspirazione al
meglio, votata alle grandi e significative conquiste, ad un riconoscimento more nobilium impegnativo, altruistico
verso disagiati e sfortunati, che dovrebbe essere sempre sorretto da spirito
cavalleresco e non da albagia e utilitarismo. Pena l’annullamento del titolo
stesso.
Questa non breve premessa, con la
promessa a me stesso di tornare più ampiamente sul tema, anche
storiograficamente oltre che dal punto di vista letterario e dottrinale, per
raccontare adesso finalmente del bel libro di Francesco Alliata di Villafranca,
Il Mediterraneo era il mio regno. Memorie
di un aristocratico siciliano , Neri Pozza editore di Vicenza(2015) con una
bella introduzione di Stefano Malatesta a sua volta autore di libri imperdibili
su fatti, ambienti e persone di Sicilia.
Ho letto in due riprese questo
libro – avvincente per altro – del Principe Alliata. Appena uscito, infatti,
sapendone e attendendone la comparsa in libreria, mi sono fiondato avidamente
nella lettura, riponendolo per circa un mese data l’impressione in me suscitata
dalla scomparsa a quasi novantasei anni, del Principe a pochi giorni dall’uscita
del suo libro-verità, che spero abbia avuto fra le mani prima della scomparsa.
Formidabile protagonista in
Sicilia di un intero secolo,amava dire che bisogna essere Principi prima di
apparirlo.
Ho avuto il privilegio della
conoscenza di questa unica figura di aristocratico siciliano, che ha fatto
onore alla sua vocazione, alle sue vicende personali, alla sua famiglia e alla
nostra sempre bellissima e ineguagliabile terra. Grazie devo subito dire, soprattutto
a Nino Aquila che me lo presentò, un
gentiluomo e letterato che tanto ci manca, e a Rita Cedrini, docente
universitaria e antropologa di valore, giustamente celebrata nel libro di Alliata
come punto di riferimento della rivalutazione delle sue imprese novecentesche,
a volte veramente epiche. Ricordo un afoso pomeriggio di qualche anno fa, alla
Sala delle Lapidi di Palermo in cui gli conferimmo, grazie a Rita in
particolare e al Dott. Anello e a chi scrive fra i giurati, il Premio Speciale
Arenella-Città di Palermo per tutto ciò che oggi, grazie anche al libro
sappiamo nel dettaglio, nella briosa narrazione, nelle combattive scelte e
determinazioni dettate dal fare e che
l’autore rivendica in toto, pur con talune ingenuità unite a tanta buona fede,
non sempre corrisposta peraltro. La storia quasi millenaria della famiglia
degli Alliata – che vanta parecchi rami ancora oggi – fra guerrieri, letterati,
Santi, uomini di potere e Beati, ha inizio a Pisa. Mercanti di quella Repubblica aristocratica (
le cui gesta furono oggetto di un volume storico di grande importanza che
dobbiamo a Marco Tangheroni, valoroso medievalista e caro Amico, troppo presto
scomparso) che presero dimora in Sicilia assurgendo le più alte care del Regnum
e gestendo il servizio di posta. Vicende che la zia di Francesco, Felicita (1876-1974)
aveva ricordato in un suo imperdibile volume anch’esso di memorie Cose che furono attraverso la storia di un’antica
famigli italiana, edito da Flaccovio nel lontano 1949, e in cui le origini
della famiglia, come si usava nei secoli scorsi, sono ricordate avvolte nella
mitologia antica, ma ben documentate quelle degli ultimi secoli, non esenti da
aneddoti ed esaltazioni che invece mancano, ed è un bene, alla fluida scrittura
di Francesco.
Altro libro che voglio ricordare è
quello delle memorie di Gianfranco Alliata di Montereale, principe anch’Egli, e
di un altro ramo della famiglia, pure ricordato nel libro attuale del
Villafranca insieme alla memoria della madre di Gianfranco, Olga Matarazzo. Mentre
di Francesco sono stato un buon conoscente, come lo sono della degna figlia
Vittoria, scrittrice e fiera imprenditrice (a cui ebbi l’onore a Bagheria di
attribuire nel 2012 il Premio Socialità e Cultura del Circolo Giacomo Giardina,
presieduto da Giuseppe Bagnasco), che è stata capace di riunificare le
proprietà disperse della villa bagherese di famiglia, teatro in un recente
passato di corvi rapaci e di interessi e presenze mafiose, di Gianfranco
Principe del Sacro Romano Impero, che dilapidò una fortuna fra la politica
monarchica (fu più volte deputato, le donne, la massoneria, l’esilio per
improbabili golpe), sono stato amico e mi legano a lui tanti ricordi di comuni
imprese culturali in Grecia, a Malta, a Roma e oltre che ovviamente a Palermo.
Il libro dicevo, fa il periplo di
un secolo storia propria e di Sicilia. Scorrono in modo lieve le tappe della
formazione, la famiglia, l’iniziazione alla cultura con la correzione di 7500
pagine di bozze, le proprietà sparse in tutta l’isola, il ricordo vivo del
maestoso Palazzo Villafranca a piazza Bologni a Palermo con una Crocifissione
di Van Dyck, i viaggi la vita militare da ufficiale addetto alle riprese
cinematografiche, la guerra, la passione mai venuta meno per il mare, per la
fotografia, per il cinema, per gli affari (non sempre andati a buon fine), la
difesa della proprietà avita di palazzi, ville, delle terre dall’assalto dei
nuovi barbari della burocrazia sclerotica e del malaffare mafioso.
Certo dire di Francesco Alliata, è
dire innanzitutto della sua creatura più riuscita: la Panaria film, fondata nel
1946. Il cuore del libro, e certamente
il più riuscito. Una volontaristica impresa tutta siciliana condotta con i
sodali Pietro Moncada, Renzo Avanzo (veneto e primo marito di Uberta Visconti,
sorella di Luchino e poi moglie del compositore e direttore d’orchestra Franco
Mannino) nonché da Quintino di Napoli (poi raffinato artista che mi onorò della
sua considerazione con bellissime conversazioni domenicali a piazza San
Domenico , e nella sua casa a largo dei Cavalieri di Malta. Tutte le vicende di
questa coraggiosa casa di produzione che prendeva il nome dall’isola di Panarea
nelle Eolie, vi sono minuziosamente e con godimento raccontate, insieme all’invenzione
con le prime riprese subacquee al mondo (una volta si diceva sottomarine) nonché
dei documentari e dei film prodotti. Memorabile resta la storia del “duello”
cinematografico tra la Panaria e Roberto Rossellini, e fra due film emblematici
“Vulcano” con Anna Magnani e “Stromboli terra di Dio” con la Bergman in funzioni di rivali sul set
e non solo artisticamente, contendendosi le due attrici un Rossellini ormai
stanco di Nannarella e innamorato della sensuale Ingrid. Vulcano della Panaria
fu notevolmente e artatamente ostacolato da svariate forze clericali e
politico-cristiane e da interessi geoculturali anche americani, che sfuggivano
però ad Alliata ed ai suoi amici. Altra impresa da ricordare fu “La carrozza d’oro”
un film altrettanto bello e significativo che ebbe per regista il grande Renoir.
Le vicende, anche di costume, sono
semplicemente e onestamente narrate nel libro da Alliata con l’occhio rivolto
anche ad altri comprimari e co-protagonisti delle sue imprese, fra i tanti
magnificamente descritti svetta un Luchino Visconti, geniale regista ed esteta
decadente, immerso nella sua turris aeburnea, scostante rampollo comunista con
ville splendide e camerieri in livrea, il cui corpo morto venne esposte a
Botteghe Oscure. Non manca inoltre il ricordo di un funambolico, affascinante
Raimondo Lanza di Trabia, su cui si sono scritte tante pagine, ultime quelle
della figlia Raimonda e del bravo Vincenzo Prestigiacomo in un libro edito alla
Nuova Ipsa. Decine le figure di contorno illustrate, che sono però citate
sempre a proposito e con garbo, avvolte con giusta esecrazione , specie fra la
fauna dei politici di professione e dei responsabili del mancato decollo dell’economia
del secondo dopoguerra, autori di politiche dissennate di presunto sviluppo (a
cominciare dalla disgraziata Cassa per il Mezzogiorno) di cementificatori senza
scrupoli e di affaristi impuniti. S’inquadra
in tale contesto la seconda parte del libro legata alle nuove avventure di
Moncada e Alliata, nella pista delle surgelazioni e dei gelati confezionati in
quel di Catania.
Chiude il volume la dettagliata
Odissea, fino ai più piccoli particolari, patita da Francesco e da Vittoria per
i beni di famiglia “donati” dalla cognata di Francesco al seminario della Curia
di Palermo (l’amato palazzo cittadino), e all’Opus dei (quello bagherese, a cui
l’Opera rinuncerà saggiamente a favore degli Alliata ). Una pagina oscura,
ancora non risolta nelle complesse appendici che certo getta ombre contraddittorie,
non solo nello specifico caso, sull’incameramento dei beni storico-monumentali.
Non fa difetto la narrazione dei fatti un violento atto di accusa, con nomi e
cognomi , nei confronti della politica di tutela della Sopraintendenza ai Beni
Culturali e a quella per i Beni Archivistici.
La lotta fino allo stremo per
difendere la residenza straordinaria di Bagheria, per fino dalle mani ingorde e
sporche di sangue della mafia, è un altro segmento importante di questo libro,
che è anche un civile atto di accusa. Paradosso, come nella migliore o
peggiore, che è meglio dire, tradizione pirandelliana siciliana, e la miope messa in stato di accusa di
Francesco Alliata da parte della magistratura con l’imputazione di non badare
al patrimonio… controsenso per i vincoli
e gli ostacoli insormontabili che invece la burocrazia imponeva e tutt’ora
impone, alle strutture in degnado.
Insomma, un libro da leggere e
godere e su cui riflettere, specie pensando ad un micromondo come Bagheria tanti bella quanto perseguitata
e violentata dal malaffare. A proposito
di Bagheria non si manchi di visitare l’appena aperta al pubblico Villa Sant’Isidoro
de Cordoba, un gioiellino ancora miracolosamente intatto anche negli arredi,
che un’altra storia da raccontare.
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