di Tommaso Romano
Grazie ala generosità del valoroso
medioevalista Franco D’Angelo, che ringrazio, sono venuto in possesso di un
frammento di articolo, tratto dal quotidiano “La Repubblica”, dedicato alle riflessioni
del grande storico francese Henri Bresc amico della Sicilia, della sua civiltà
e delle sue affascinanti vicende, docente emerito di storia medievale a
Nanterre, Parigi, e autore di volumi capitali sulla nostra storia isolana. Bresc,
come pochissimi altri dopo Michele Amari e i suoi Tomi sulla Storia dei musulmani di Sicilia (Ed. Le
Monnier, Firenze 1854 – 1872) rilasciò delle dichiarazioni non conformi alla
solita e trita “vulgata” che si ripete in gran parte delle opere di
ricostruzione parziale e a volte settarie ricche di avventure fantastiche
raccontate dall’Amari, sulla “civiltà” impareggiabile del periodo arabo della
dominazione in Sicilia. Si sa che gli stereotipi si ripetono spesso per motivi
ideologico-religiosi. Amari fu, oltre che strenuo unitarista, un deciso
antiborbonico, anticlericale fra i più risoluti, laicista dichiarato. E ciò
condizionò – volutamente consapevole il pur grande storico – il suo più che
positivo giudizio sui mussulmani in Sicilia. Per converso si demonizzavano le “tirannidi”
preunitarie.
Lo stesso mito di Federico II andrebbe
opportunamente riletto, oltre i luoghi comuni e le agiografie. Piace a questo
punto ricordare l’opportuna revisione sul regno di Federico III (Rubbettino) ad
opera di Pasquale Hamel, storico di valore e autenticamente libero.
Ma ecco ciò che limpidamente afferma
Bresc e che la cultura storica e quella divulgativa (di cui sono pieni gli
scaffali delle nostre librerie e biblioteche) riguardanti i nostri avvenimenti
non tiene in giusto conto, per una rivisitazione che dovrebbe far riflettere
anche alla luce degli avvenimenti dell’ora presente: “La sua passionalità [di
Amari] o porta a visioni romantiche, tanto suggestive quanto costruite a
tavolino, a cominciare dalla mitizzazione dell’Islam, visto come regno della
perfezione, dove tolleranza, splendore ed eternità si fondono”. Anche sul tema
della nazione italiana e sulla sua genesi, sempre riferendosi ad Amari, Bresc aggiunge:
“E anche l’idea di una nazione Italia che, senza smarrire la propria lingua,
ogni tanto risorge dalle sue ceneri, è fragile. Come dimenticare che per secoli
in Sicilia si è parlato solo greco e arabo e che solo nel 1200 è il dialetto
italico? Anche la discontinuità fra bizantini e musulmani non regge, visto che
le due dominazioni i punti di continuità sono tanti. Infine in Amari emerge il
culto del condottiero, di una democrazia violenta, una sorta di libertà armata
di matrice medioevale; un certo machismo lo
porta a demonizzare popoli per lui “effeminati”, bizantini e greci appunto”.
Concetti e valutazioni chiare da
praticare come piste autorevoli per ulteriori approfondimenti.
Certo sarebbe disonestà intellettuale sminuire
in toto Michele Amari che, anche per Bresc giustamente rimane “Grande”. Ma la
sua opera e la divulgazione delle sue tesi non possono ripetersi
pappagallescamente senza gli approfondimenti, ancora tutti da rivedere e
riconsiderare attraverso gli archivi storici e la bibliografia internazionale. Con
la serena certezza che molto in tal modo, potrebbe ricevere nuova luce. E che l’immenso
Vico, non errava di certo con i suoi corsi e ricorsi e con la sua teoria della
storia ideale eterna. La storia ci insegna,
basta trovare gli onesti che la studino senza le lenti affumicate, deformate e
false delle ideologie.
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