martedì 26 settembre 2017

Luce e silenzio nella narrazione pittorica di Enzo Partinico

di Tommaso Romano

L’eremo ordinato e fecondo di sensazioni, Enzo Partinico l’ha trovato all’Addaura di Palermo, proprio a voler cogliere il mare e traversarlo quasi nei colori delle sue opere pittoriche, a cui dedica molte ore della sua solitaria e laboriosa giornata.
Chi conosce, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la vicenda e i fermenti di quegli anni e decenni successivi, sa di un artista appartato e schivo, non solo per carattere, in cui vita e destino, come per Mozart, hanno coinciso, essendo pure degno erede di una famiglia di scultori, per i quali il “mestiere” di vivere l’arte era ancora una superiore missione di vita, oltre che di operosità felice.
Fin dalla prima personale alla galleria palermitana “Il Chiodo”, Partinico viene presentato magnificamente da Francesco Carbone. Siamo nel 1964 e il critico e amico sagace che incoraggiò sempre gli artisti operanti o che si affacciavano alla soglia così scrive già di un Partinico “taciturno e frammentario” che “sembra vivere dentro un reticolato di rassegnazione. Vale a dire una timidezza protetta da ogni evasione”. Ma, da straordinario interprete, Carbone aggiunge che quella di “Partinico è piuttosto un’attitudine all’ascolto di sè e di come sono fatte certe voci dalle origini indefinite”.
La vista interna dall’allora giovanissimo pittore, Carbone la fa risalire e la riallaccia al grido originario e al suo eco, che sortisce “una pittura allusiva e simbolica”. Il critico godranese, sempre con grande intuito critico e con rara capacità di sintesi, evidenzia ancora gli elementi che segnarono quegli anni d’esordio del giovane Partinico: fra il panico  e il dissenso, fra il fiabesco e l’impulso romantico.
Un impianto che altri studiosi hanno criticamente rimarcato con positive note nel tempo, con accentuazioni ora verso un aspetto ora verso l’altro fra quelli già indicati da Carbone. Vorrei ricordare fra questi almeno Maria Poma Basile, Giovanni Cappuzzo, Vincenzo Monforte (che ebbe a definirlo cantore magico della vita), Baldassare Messina, Eduardo Rebulla, Albano Rossi, Giuseppe Servello, Giuseppe Geraci, Benedetto Patera.
Docente negli Istituti d’arte di Palermo e Monreale, Partinico sceglie però ben presto, nell’anno 1992, di ritirarsi dall’insegnamento per seguire la sua vocazione, per intero.
Espone a Palermo, soggiorna per tre anni con intensa partecipazione a Paola in Calabria, partecipa a collettive come la storica “Ricasoliana”, ma è lontano per scelta dalle luci del varietà dissolutivo e inconsistente dell’ultimo cinquantennio.
Resta fedele a se stesso e continua con liricità compositiva, metodo, rigore e con aperture e rare incursioni nel sociale, la sua narrazione personalissima e mai descrittiva, senza perdere la possente figurazione nell’ordito della sostanza cromatica irradiante e che, con il ciclo dei migranti, si è fatta ora più rarefatta nei toni, non certo nella sostanza.
Accanto ai grandi nomi di artisti emigrati in cerca di fortuna dovremmo meglio considerare chi, come Partinico, sapendo bene le difficoltà e il declino che viviamo, non solo nelle attività legate al mondo dell’arte, ha deciso di non potere fare a meno della luce siciliana, magari in solitaria pedalando su una bicicletta, fra costa e campagne, quasi nella necessità di sentire la vita della natura e forse meno quella degli uomini, che in realtà abusano della millenaria pazienza del creato.
Ho conosciuto meglio Partinico da qualche tempo, casualmente.
Già ne apprezzavo la produzione fin dalla frequentazione delle sue personali alla galleria del Banco di Sicilia. E, tuttavia, l’impronta che queste opere di Partinico mi hanno suscitato fin da allora, non si sono mai ricoperte di polvere, insieme alla considerazione per i suoi temi fondanti, per le sapienti atmosfere create, per la forza che egli sa imprimervi. Penso al ciclo dei cavalli così eleganti, che sembrano ritmati musicalmente, senza ombre di leziosità o di maniera, così dinamici, quanto sono statici e irrealmente metafisici nella loro solennità sono quelli di De Chirico, pur grandissimo Maestro. Partinico mi ha richiamato, nel nostro incontro ultimo, le atmosfere della Camera ad Arles di Van Gogh, e certi interni dell’iperrealista Sergio Ceccotti, restando però sempre il legame che si avverte con il suo universo essenziale e personale.

Pittore di qualità raffinata anche tecnica, Egli non è ascrivibile a nessuna scuola o corrente, la riconoscibilità di Enzo Partinico segue il suo sigillo e marchia le sue opere.
Ma non è tutto. Partinico in realtà è un mistico cantore di una verità non solo legata alla terra o alla storia. Egli sente, vive e realizza le sue opere con una significativa apertura al sacro (che non vuole dire fare arte sacra come la si intende comunemente), alla trascendenza, al mito, al numinoso come  ci fu indicato da un Mignosi, da un Maritain, da un Ries e da un Eliade e così ben teorizzato da Scruton.
Il suo orizzonte è quindi catartica immedesimazione nella totalità, anche nei labirinti del dramma, nella solitudine, nell’abbandono, nella dialettica egoistica che costella il nostro tempo infame.
I silenzi dei fiori, della natura, che Partinico ci dona hanno un alfabeto arcano nella scansione di sequenza e piani, di stati d’animo lirici e di riflessività costanti, che ricompongono in armonia la bellezza che non ha paura di nascondersi, di mimetizzarsi.
Ecco, la scelta di Partinico non è la trita arte per l’arte, è piuttosto la idea in atto di una trascendenza che può solennizzarsi nell’atto, senza pseudo concettualismi cervellotici e falsi.
Per Partinico non useremo neppure la formula restaurativa del ritorno alla pittura, dato che la pittura e l’uomo Partinico vivono da sempre in simbiosi, in spirituale e non delebile rapporto.
La complessità di alcune opere, si pensi a quelle dedicate a Palermo, con emblemi e simboli che si incontrano e si completano nelle composizioni floreali non sono mai da intendere come ornamento “gentile” e a latere, ci comunicano quanto autentico sia l’anelito senso di una origine pura.
Non troveremo facilmente fra i social e i tomi illeggibili di critici autoreferenziali e le statistiche di utilitaristici mercanti d’arte, grandi notazioni e interessate valutazioni per le opere di Partinico. Ed è un bene per il nostro artista, non essere sceso a patti nell’arena della competizione strumentalizzata della vicenda artistica dei nostri tempi.
Si può benissimo, infatti, come ha insegnato Hanna Arendt, stare ad osservare da spettatori dello scorrere delle vicende, sapendo che il grande e vero giudice di chi le sa scoprire e la qualità in una storia che appartiene più alla durata, alla realtà antologica, che alla cronaca del consueto.

Nei suoi singolari cromatismi di luci e silenzi, nel suo lavoro svolto senza posa, nella scelta della contemplazione, che diviene esistenzialità e conoscenza c’è tutto il segreto di un autentico Artista, quale certamente è Enzo Partinico.

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