sabato 25 marzo 2017

La luce del mito secondo Marcello Veneziani

Se ci fosse uno Stato serio in una Patria colta, partecipata e orgogliosa della sua identità, fucina di idee e di valori condivisi e autorevoli, riconosceremmo a Marcello Veneziani ciò che è stato tributato, da latitudini ideali diverse almeno nell’ultimo secolo, ad esempio ad un Benedetto Croce, un Giovanni Gentile, un Antonio Gramsci, a volte durante la loro vita stessa.
Ma siamo nella bella Italia del dolore ostello, come direbbe il Padre Dante, e ingnoriamo o cancelliamo la intelligenze vive, scintillanti, preziose.
Si marginalizza nelle frange, si legge poco e si studia meno, si affibiano cliches di zinco sempiterni e scontati, si odiano le passioni nette, forti, le scritture eleganti e incisive, il buon senso e il culto della icone della bellezza e della tradizione. Una iconoclastica infame e miserabile.
Perfino coloro che dovrebbero cercare l’Arca smarrita nella riva libera e in quella destra, impegnati come sono nel loro “particulare” vuoto pneumatico, come chiusi in un fortino di cartapesta, al massimo concedono qualche cenno, una labile recensione, un dibattito sul come eravamo. Vili e nani nel cervello, bisce nella vita.
Non troveremo Veneziani neppure paludato, in onore, ai Lincei e non sappiamo peraltro se sarebbe stato accolto alla Reale Accademia d’Italia.
Destino dei grandi. Sì, perché Marcello – classe 1955 di Bisceglie, vivente tra Roma e Talamone - è un grande scrittore, un pensatore eccellente, uno studioso attento, un pensatore autonomo e profondo, un saggista verace e commentatore televisivo, opinionista e giornalista mordace. E questo non va certamente a genio ai minuscoli camaleonti, agli scrittori e soprattutto ai critici gonfiati artificialmente nella greppia di laboratorio, ai protetti delle mafie saccenti delle egemonie culturali, agli accademici laureati di Metastasio e ai copisti imbelli di tesi di laurea altrui.
Che fare? Almeno dichiarare la verità.
Ho letto tutti i libri di Marcello Veneziani, avendo avuto anche l’onore – che vale l’intera avventura editoriale di Thule (si è tanto originali nell’ambiente, che hanno perfino tentato di copiarne l’etichetta viva ,vegeta e operosa sin dal 1971, pensate l’originalità e l’immaginazione a quale potere possano aspirare!). di pubblicarlo per primo nella periferia del decadente impero, qui a Palermo, nel 1976 con la sua Ricerca dell’Assoluto in Julius Evola.
Da allora, Veneziani ci ha consegnato un intero, raffinato scaffale, ricco di meditazioni, riflessioni costanti, memorie, narrazioni, interventi. Ha diretto settimanali, periodici, animando cenacoli, fondazioni e imprese nobilmente donchisciottesche e quindi autentiche.
Un riferimento, anche di stile umano e letterario, è stato ed è Veneziani.
Testi memorabili i suoi, che si incrociano con gratitudine nella memoria, quali architravi possibili e disponibili per avviare, almeno, una rinascenza delle idee che si fanno azione (Jean Ousset) che, a parole, tutti  auspicano e a cui pochi mettono mano in realtà con sudore, fatica e costanza.
Ne ricordo solo alcuni, di questi volumi di Marcello Veneziani, per me paradigmatici a cui peraltro ricorro spesso, ricordando inoltre le molte occasioni di presentazioni, dibattiti, incontri in tanti angoli e anfratti dell’isola e della penisola: Processo all’Occidente, La rivoluzione conservatrice in Italia, Comunitari o liberal, Di padre in figlio, USA e costumi, Elogio della Tradizione, La cultura della Destra, La sconfitta delle idee, Contro i barbari. Il secolo sterminato, Sud, I vinti, Rovesciare il ’68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino, Lettera agli italiani e, ancora, dopo questi saggi di filosofia politica e analisi metapolitica, non meno importanti i volumi curati e quelli antologici, fino ai nodali dedicati a temi esistenziali, con saggi filosofici e preziose scritture letterarie, come: Vita natural durante, La sposa invisibile, Il segreto del viandante, Amor fati, Un’ora d’aria, Vivere non basta, Anima e corpo, Ritorno a Sud.
Adesso, dopo aver letto e assaporato Alla luce del mito. Guardare il mondo con altri occhi (Marsilio, 2017), si può confessare di restare francamente incantati dalle straordinarie capacità  di Veneziani di condensare, con rara efficacia, ciò che altri studiosi hanno invece consegnato in tomi e volumi, a volte illegibili o mal digeribili, tronfi di petulante specialismo.
La prosa aforistica di Veneziani è invece sempre persuasiva nella profondità, in grado di avvincere con stile letterario e linguaggio personalissimi, seppur debitori, fortunatamente, di una lirica classicità. All’uomo di oggi, scrive Veneziani, “il mito non offre profitti ma fondamenti, non assicura vantaggi ma significati. Dona bellezza, irraggia gli eventi e illumina i volti”.
Il mito è ordine nella bellezza e tutta l’umana avventura ha come origine e come perpetuità il mito: l’amore, l’infanzia, la storia, la politica, ma anche il cinema e la pubblicità, gli atti significati della nostra vita. Nel triste oblio del pensiero filosofico e delle certezze una volta sostenuti dalla religione, davanti a scienza e tecnica egemoni non ci resta, dice Veneziani, che il mitopensiero, come orizzonte e bisogno, odierno e non antiquario, che comunque sopravvive, nel disastro della modernità, nel “deserto del sistema globalitario”. Il mito non è ipotesi, è una trascendenza possibile e non incapacitante, un bisogno di bellezza oltre il naturalismo, per un racconto profetico che unisce ieri, oggi e domani e serve  per elevare l’umano oltre l’economicismo, le oligarchie finanziarie, l’utilitarismo e la povertà dei contenuti specie nella politica odierna, che vivacchia senza grandi idee e motivazioni e con progetti debolissimi, mortiferi di delocalizzazione mentale, come uso dire.
Dai Greci ad Enea, a Dante a Petrarca, dalla grande musica all’arte possiamo ripercorrere le vie che evocano, non solo per conservare ma per riscoprire lo spirito, il sogno, per una “pedagogia di massa per educare agli esempi”, ai modelli da riscoprire e valorizzare di ciò che è “attiguo alla realtà”, diventando visione del mondo, di contro alle mitizzazioni negative, alle mitomanie imperanti, del subumano, al falso buonismo elevato ad assoluto, obliando il senso dell’equità e della giustizia.
Il mito non è la verità ma aiuta a scoprila, e non è un’invenzione o, peggio, una finzione è, dice ancora Veneziani, “la vista ulteriore che trasforma il nostro sguardo e apre altri orizzonti”, e ancora, “il mito è illuminazione. Non si basa su fatti, esperienze e giudizi, ma li illumina e li dota di senso, visione e destino. Oscurantismo è pendere dalle sole labbra della ragione”, dopo “i dubbi della ragione critica”, È, in sostanza, il “narrare e il pensare il mondo con altri occhi, sotto altra  luce”, e al contempo, seguendo Vico, è l’universale che investe ogni civiltà, ed “è cosmico, non è geo-storico”, si tramanda, può “fondare un nuovo sapere” sulle rovine.
Ed ecco perché, aggiunge profeticamente Veneziani, “Occorre un pensiero possente per affrontare la tecnica sconfinata e la mega-macchina. Il pensiero logico- matematico, al pari di ogni filosofia della  Praxis, conduce alla tecnica. Il pensiero da solo non riesce a competere se non si apre all’universalità dei miti, preparandone l’avvento. Solo un pensiero mitico potrà sfidare il potere sovrano della tecnica (e della finanza). La potenza autonoma di un’altra origine, di un’altra sovranità con un’altra destinazione”.
Quando i lavoratori fanno finta di fare gli insegnanti e ricusano il ruolo di educatori perché incapaci, cominciano ad impartire agli alunni da motivare eventualmente, luoghi comuni e discettano che l’avvento della filosofia fu, finalmente, “il superamento del mito, delle narrazioni fantastiche, dell’epica” che avrebbero oscurato l’avvento, finalmente, della ragione liberatrice dalla caverna, appunto, del mito, in tal pessimo modo il tragico si sposa con il grottesco, per terminare nel delirio dell’ombra della ragione, che infatti così produce mostri. “La perdita del mito genera ectoplasmi depressi o almeno annoiati. Senza mito la vita gira a fari spenti nella notte”, nel “buio del pensiero negativo”. Per questo Platone induce a ricordare, perché ogni conoscenza è reminiscenza, della baconiana sapienza degli antichi, e così che si dota una comunità di un “autobiografia ideale”, facendo coincidere, con Schlegel e i Romantici, la mitologia con la poesia che universalizzano l’esperienza oltre l’individualismo egoistico. È, in sostanza, lo stato aurorale che pervade. Dice ancora Veneziani, e noi lo sosteniamo dal nostro punto visuale mosaicosmico: “Il mito a noi appare il ritorno all’armonia del Kosmos, una forma ideale di ordine dell’universo, tutto meno che un caos: ogni cosa trova il suo rango e la sua spiegazione e si colloca come epifania ricorrente nell’ordine perenne del mondo. Non confusio ma connectio”.
Il mito è quindi extratemporale,
supera il tempo e le strettoie dell’io, gli altri sono futili surrogati temporanei propri del sistema della menzogna e della degradazione del piacere, come diceva Fausto Gianfranceschi, che drogano l’esistenza anche con la peste chimica e con quella che si spinge all’indifferenza impotente.
L’incalzante e  affascinante scrittura sapienziale di Veneziani non si limita a percorre sentieri che possono sembrare solo astratti o ideali, indaga e propone di rimeditare, nella pratica del divenire, una sorta di risacralizzazione di tutto ciò che può rendere armoniosa la città di vita: la musica, la poesia, il gioco, la pittura e la scultura, l’eros, lo sport, il grande stile nell’architettura e nell’urbanistica, l’atto gratuito del pensare oltre le proprie condizioni o frustrazioni, che non deve essere separato però “dal desiderio puro e gratuito di farlo, di cimentarsi”. Una purificazione possibile, che trova nel rito battesimale la liberazione dal peccato originale per redimere “la creatura dalla sua impurità nativa e restituirla al candore”, anche se “la purezza è fugace come la vita dei gigli”. Ma, attenzione, non bisogna confondersi con il naturalismo storico di un Rousseau, infatti il mito della natura è un mito moderno, non arcaico e per giunta artificiale. La natura non è pura ma va purificata, come tutto ciò che nasce al mondo. In origine è impura e feroce, come gli animali che la popolano e gli elementi che si scatenano; la natura è anche escrementi e lordure, è tutto ciò che è ancora grezzo, crudo e incolto; è l’opera umana, è il fuoco che cuoce e purifica, è l’acqua con il sapore che la deterge, sono la società, la storia, il rito, il processo chimico a redimerlo, detergerla, purificarla”.
Falsi miti accompagnano le nostre pene quotidiane, costruite a tavolino con scientifica precisione dagli strateghi perversi del villaggio globale, dagli illusionisti di falsi paradisi perduti e ritrovabili nell’illusione alimentata nella corruzione, nel vizio e nella trasmutazione antropologica e genetica (si pensi soltanto alla diminuita potenza procreativa del maschio e ad una generalizzata femminilizzazione che si propone con crescenti campagne mediatiche o quasi terroristiche nel nome dell’indistinto, della liberazione  sessuale assoluta e del progresso senza limiti, che fanno pure arrivare a registrare punte record di violenza a tutti i livelli, spesso senza alcune o risibili).
Non è quindi la luce del mito da riconquistare, una pretesa di purezza assoluta, aggiunge Veneziani, la quale invece si “accompagna di solito al fanatismo e all’utopia del paradiso in terra, cioè della perfezione nella vita e nel mondo. Talvolta la contaminazione, l’incrocio, è una ricchezza per le persone, i popoli, le cose rispetto la persistenza inerte nella purezza. (…). La vita  stessa sorge dalla combinazione delle differenze, dall’incrocio tra due corpi e due vite; la fecondazione è un’ibridazione tra un seme e un ovulo. Vivere è mescolarsi, la vita stessa sorge dall’incontro fra diversi. Parole chiave, assai chiare, contro ogni razzismo, ogni teoria aprioristica, a favore della vita. La pretesa di ridurre nel numero l’umanità, porta alla crescita sottozero, voluta da tempo immemore dallo gnosticismo laicista e libertario di falsi e scienziati che, invece, applaudono allo svuotamento “umanitario” di interi continenti onde sovvertire le feconde identità e costruire  una pseudo e sradicata cittadinanza mondiale con un governo dei “puri”, mondialista a guida tecnocratica.

La società perfetta è solo possibile nella mente di utopisti e futurologi senza realismo rispetto all’umano e sfocia o nell’impotenza a migliorare l’esistente o, peggio, nelle ghigliottine giacobine degli “illuminati”, degli “incorruttibili”, senza inoltre dimenticare che il perfettissimo è pure considerato dalla Chiesa stessa – almeno fino ad oggi, perché la mutazione investe radicalmente anche l’Ecclesia tutta – un peccato. Ascendere, aspirare alle vette, purificarsi, contemplare, ricercare e godere la luce sono, invece, vettori possibili di orientamento, necessari all’umano che, con la pratica della virtù, vuole sinceramente migliorarsi ed elevarsi nell’ambito di un consorzio civile.
L’esortazione evangelica vale, a tal guisa, ancora: “essere come serpenti e candidi come colombe”.
Tuttavia, nessuno può pretendere di possedere il monopolio della verità, pur sussistendo la Verità e il suo Principio, e Marcello Veneziani non manca di riferirsi, nel suo libro, anche e giustamente a San Tommaso d’Aquino e a Vico.
Certo “il pensiero mitico non offe soluzioni né affronta problemi ma cerca vie d’uscita, una volta compresa l’essenza tragica della vita, che non ha scampo. È la religione a prospettare soluzioni, è il pensiero critico a sollevare obiezioni. Il mito non pone obiezioni è una via d’uscita dal mondo, dal tempo, della condizione umana. Non fa della vita il valore supremo e il paradigma assoluto, perché è destinata a finire, come tutte. Se la vita decade e infine cessa, il mito invece continua. La vita si proietta nel mito. È, in sostanza, il costante riferimento di Veneziani che si coniuga con l’amor fati, con un destino che ci trascende. Il mito è, quindi, in tale ottica “visione dell’invisibile”. Per questo bisogna, oltre e contro il nichilismo, poetizzare la vita, con mente eroica, interrogare il Mistero e nutrire fiducia nel Ritorno che, per il cristiano, è la Parusia, il rimanifestarsi in terra di Gesù Cristo.
Per queste e molte altre ragioni Veneziani, con il tono solenne che si addice alle grandi e decisive opere, scrive: “Il mito attualizza l’eterno, eternizza l’attuale. Esporta la terra in cielo. È un ponte e consente passaggi di sponda altrimenti impossibili”.
Quante suggestioni, spunti, suggerimenti, confronti, non banalmente intellettualistici, suggerisce Veneziani con questa e con l’opera sua intera fino ad oggi e che, ne siamo certi, si arricchirà, magari rileggendo da par suo, la forza anagogica che è pro­pria pure del simbolo. Senza, sia ben chiaro, oltre l’indiscutibile ammirazione, far diventare imperativo il suo pen­siero come ideologia totalizzante, insieme alle sue fervide ricerche, ai suoi studi, alle sue interrogazioni, alle sue splendide proposte e visioni. Non per amore di relativismo, né per riserve sorprendenti e dirimenti. Solo perché la lucentezza può meglio rivelarsi all’anima con apporti plurali, come nel collaudato metodo seguito dallo stesso Veneziani, perché non antitetici.
Ed è questo- fuori dagli schermi dell’ovvio o del fanatismo che non ci riguardano - che Marcello Veneziani ci propone costantemente di fare, per conservare almeno il senso e la verità della Bellezza.

Una lezione, insomma.

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