di Tommaso Romano
La cosiddetta intellighentia palermitana vive di
croniche amnesie e di rimozioni da sonno profondo, mentre si crogiola nella
denuncia del sacco osceno (che così fu e resta, sia chiaro) della città
armoniosa del liberty nelle nostre arterie principali. Presi da sacro furore
pure gli stessi eredi che vendettero per sciatti magazzini e appartamenti alle
imprese rapaci, alla mafia e alla politica dei truffaldi in combutta, e nel
quasi silenzio tombale dei più, piangendo calde lacrime ancora e giustamente
per Villa Deliella e collezionando cartoline e libri illustrati del bel tempo
andato per curare il lutto e lo scempio consumato. Così consolandosi e mettendo
a posto la coscienza e non proponendo altro, in concreta sostanza, che la
conservazione dell’esistente, fatto di orrendi palazzoni posteggi, autolavaggi
e depositi. Se qualcuno – come è avvenuto in tutta Europa per altre distruttive
barbarie – indica la via della rinascita volendo ricostruire o almeno
eliminando gli orrori esistenti e restaurando-risanando, lo stresso fronte
conservatore (i veli conservatori del
brutto) insorgono e tutto resta come prima.
La viltà domina
sempre sovrana insieme alla supponenza dei “colti” e “illuminati” di Palermo e
dell’isola intera.
La “capitale
italiana della cultura” (forse qualcuno ritiene abolita la storia, per dire che
non siamo mai stati una capitale? E che non sarà certo un tram ingombrante e un
divieto di transito o un decreto burocratico a far tornare capitale il bel
centro storico), di cui si cantano meraviglie a priori, non si sa se per progetti
di rinascita o per presunti nuovi spazi di vivibilità ora effettivamente negati
e da invece ricostruire e reimpiantare veramente. Ancora si è stati e rimasti silenti (o se non me ne
sono accorto chiedo venia anticipatamente!) su uno degli ultimi delitti
perpetuati in questa mia città infelice: la sistematica opera di sventramento e
sfiguramento di quello che fu il Regio Policlinico Universitario di Palermo.
Naturalmente dato che questo fu concepito, voluto e realizzato per volontà dei
politici e amministratori dell’odiato ventennio (insieme alla monumentalità del
tempo), qualunque colpo inferto diventa così e per queste miserande ragioni,
chirurgicamente positivo. In realtà dovrebbe almeno leggersi la storia
architettonica e urbanistica e conoscere
l’architetto Antonio Zanca (Palermo 1861 – 1958), migliore prediletto allievo
di Damiani Almeyda che a seguito del Regio decreto del 1926 riuscì a completare
una esemplare cittadella della salute nel 1939 consegnando una delle poche,
autentiche opere pubbliche di rilievo dall’Unità ad oggi. (cfr. su tale
argomento Paola Barbera e Maria Giuffrè, a cura di Un archivio di architettura tra Ottocento e Novecento disegni di
Antonio Zanca 1861-1958, Biblioteca del Ceridi, Palermo 2005). Non parlo
degli eterni lavori in corso nello stesso Policlinico (una giungla dal 2007),
parlo invece di “nuovi” padiglioni che potevano ben essere costruiti in altri
spazi vuoti (sempre peraltro adibiti a parcheggi ed è quasi un destino)
adiacenti o ponendo meglio mano finalmente al risanamento della vicina via
Monte Grappa e adiacenze di ulteriori ampie zone e con il coraggio culturale e
civile di abbattere finalmente case fatiscenti e invivibili dell’intera zona
consegnando ai cittadini case adeguate. No, bisognare sventrare e costruire
scatole enormi, è veramente squallido al Policlinico (si salvano uno o due
padiglioni, il resto è peggio dello ZEN) con un olore inverosimile un misto fra
salmone, aragoste e rosso sangue che impressiona il malato, il paziente che
ricordava dalla via Gaspare Palermo l’armonioso ingresso fra palazzine
adeguate, alberi e viali discreti e ancora un agrumeto di fronte, che era la
villa del seminario, poi espiantata per un campo di calcio e infine venduto per
l’ennesimo palazzo informe.
Fate un giro
istruttivo e vedrete, beandovi alla Feliciuzza altre scatole pronte all’uso con
candido alluminio anodizzato e dello stesso oscuro colore sui muri. Che siamo
tutti malati lo disse già Freud, ma così ci si ammala di bruttezza incurabile
alla vista e agli altri sensi. I ”restauri” di singoli padiglioni sono poi un
trionfo di pseudo colori diversificati e francamente incredibili e di
sovrapposizioni degne di un manuale di architettura. Si dirà: serve spazio, le
esigenze prima di tutto, i malati non vivono di bellezza ma di cure. A parte
che la bellezza è terapeutica quanto lo sono i colori, era necessario invece un
disegno organico e progetti sobri per padiglioni necessari mantenendo però e
curando veramente il già esistente.
Ma che
importanza può avere tutto ciò che narro per “intellettuali” e progressisti,
ecologisti da strapazzo e politici? Il popolo guarda sconsolato i nuovi barbari
tra noi e protesta in silenzio non votando. Come dar loro torto. Se un
architetto o un urbanista per bene denunciano questo e altro con proposte
radicali, toccherà forse loro un destino elettorale dello zero virgola
qualcosa, pur onorevole sia chiaro, perché viggono in questa città le
supponenze, le cordate clientelari e le congiure del silenzio come patti
trasversali del nulla che dolorosamente attraversiamo nostro malgrado per
ignavia, prepotenza e vera incultura altrui, sempre progressista però.
Ultimo consiglio
per favore (come usa dire l’uomo
vestito di bianco dal pugno di ferro a chi non consente alla sua personale
misericordia) proporre subito un giro per la citta “redenta” che comprende
tutte le periferie a cominciare dall’Albergheria. Basterà fotografare con una
macchinetta di pochi euro e fare un bel reportage per dimostrare di cosa è
capace la città accogliente. Ai prossimi ludi cartacei di queste autentiche e
non sementabili realtà e disgrazie, pochi in solitudine riscorreranno, pronti
gli altri e come sempre ad applaudire dalla pseudodestra, pseudocentro, e alla
pseudosinistra, concretonulla, retori da strapazzo, politicanti veri e
invenzioni da cabaret.
Reagire
dovremmo. È l’abbiamo pure tentato da una vita. Ma pare sempre più una pura e
pia illusione di solitari impenitenti e
dolenti.
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