di Elio Giunta
Facit indignatio versus: mai ci torna più opportuna la famosa frase come nel leggere questo Nel mio regno dei cieli, un testo approntato da Tommaso Romano sulla scia della sua molteplice attività di intellettuale, impegnato nella vicenda storico-culturale che tutti c’investe. L’opera si presenta come un discorso poematico che sta tra l’intensa polemica e la corrosiva provocazione, nel contempo in cui, proprio per la scelta della forma in versi sciolti e liberi si rimarca una propria, singolare distanza morale e meglio si sintetizzano temi ed intenzioni. Perché quanto si legge, col linguaggio disinvolto che facilmente ci cattura, mentre sembra nascondere e mettere per inciso i motivi di stigmatizzazione, costituisce una lezione civica organica e di spessore, sostenuta da precise convinzioni e riflessioni. Sono le convinzioni che riescono “scorrette ai più”, cioè ai conformisti, in questo secolo di “falso quietismo”, di acquisizione di onori immeritati, “di miseria culturale, di compromesso continuo”, in cui non è la tecnologia a trionfare ma il denaro, con tutto ciò che comporta: cioè l’oligarchia dei pochi ricchi “senza bandiera” e “dei tiranni che cianciano di democrazia”. Insomma siamo in un’epoca di falsità diffusa, in cui si è persa o viene travisata pure la visione di Dio, tutto livellando alla consuetudine, al relativo, all’acquiescenza che s’appaia al nichilismo.
Tommaso Romano spiega icasticamente il rovesciamento dei valori, tipico come regresso in atto di questa nostra civiltà, malata di laicismo acritico, dove si può andar dicendo che “Il Dio non c’è mai stato” e vige l’illusione del progresso veloce e della gaia scienza ritenuta perfetta. Per cui, se così stanno le cose, al poeta o all’intellettuale non resta che ritrarsi in un proprio regno dei cieli -vedi, a proposito il titolo- e lì darsi un senso di sopravvivenza anche minuscolo, una ragione per esistere.
L’intensa e sollecitante lezione di queste pagine ha in fondo come conclusione la possibile tutela della dignità dell’uomo, il che è, ancora una volta, il compito della poesia. Essa in questo nostro tempo non gode di palcoscenici da cui tuonare, ma sta in covi segreti in cui coltivare fervori di verità ed intelligenza per distanziarsi dalla melma. E’ ancora la poesia che può avere in serbo l’ira salutare che fu quella di Dante contro la “serva Italia di dolore ostello”, o che recuperi l’amara invettiva addirittura di antichi poeti, quali, ad esempio, Teognide (è lo stile lirico-discorsivo di Romano che mi suggerisce il riferimento) contro i rivolgimenti plebei, forieri sempre di declassamento e volgarità. Perché anche quelli erano, come i nostri, tempi di dolorose recriminazioni e di sconsolato pessimismo.
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