di Tommaso Romano
L’eremo
ordinato e fecondo di sensazioni, Enzo Partinico l’ha trovato all’Addaura di
Palermo, proprio a voler cogliere il mare e traversarlo quasi nei colori delle
sue opere pittoriche, a cui dedica molte ore della sua solitaria e laboriosa
giornata.
Chi conosce, a
partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la vicenda e i fermenti di quegli
anni e decenni successivi, sa di un artista appartato e schivo, non solo per
carattere, in cui vita e destino, come per Mozart, hanno coinciso, essendo pure
degno erede di una famiglia di scultori, per i quali il “mestiere” di vivere
l’arte era ancora una superiore missione di vita, oltre che di operosità
felice.
Fin dalla prima
personale alla galleria palermitana “Il Chiodo”, Partinico viene presentato
magnificamente da Francesco Carbone. Siamo nel 1964 e il critico e amico sagace
che incoraggiò sempre gli artisti operanti o che si affacciavano alla soglia
così scrive già di un Partinico “taciturno e frammentario” che “sembra vivere
dentro un reticolato di rassegnazione. Vale a dire una timidezza protetta da
ogni evasione”. Ma, da straordinario interprete, Carbone aggiunge che quella di
“Partinico è piuttosto un’attitudine all’ascolto di sè e di come sono fatte
certe voci dalle origini indefinite”.
La vista interna dall’allora giovanissimo
pittore, Carbone la fa risalire e la riallaccia al grido originario e al suo eco,
che sortisce “una pittura allusiva e simbolica”. Il critico godranese, sempre
con grande intuito critico e con rara capacità di sintesi, evidenzia ancora gli
elementi che segnarono quegli anni d’esordio del giovane Partinico: fra il panico e il dissenso,
fra il fiabesco e l’impulso romantico.
Un impianto che
altri studiosi hanno criticamente rimarcato con positive note nel tempo, con
accentuazioni ora verso un aspetto ora verso l’altro fra quelli già indicati da
Carbone. Vorrei ricordare fra questi almeno Maria Poma Basile, Giovanni
Cappuzzo, Vincenzo Monforte (che ebbe a definirlo cantore magico della vita), Baldassare Messina, Eduardo Rebulla,
Albano Rossi, Giuseppe Servello, Giuseppe Geraci, Benedetto Patera.
Docente negli Istituti
d’arte di Palermo e Monreale, Partinico sceglie però ben presto, nell’anno 1992,
di ritirarsi dall’insegnamento per seguire la sua vocazione, per intero.
Espone a
Palermo, soggiorna per tre anni con intensa partecipazione a Paola in Calabria,
partecipa a collettive come la storica “Ricasoliana”, ma è lontano per scelta
dalle luci del varietà dissolutivo e inconsistente dell’ultimo cinquantennio.
Resta fedele a
se stesso e continua con liricità compositiva, metodo, rigore e con aperture e
rare incursioni nel sociale, la sua narrazione personalissima e mai
descrittiva, senza perdere la possente figurazione nell’ordito della sostanza
cromatica irradiante e che, con il ciclo dei migranti, si è fatta ora più
rarefatta nei toni, non certo nella sostanza.
Accanto ai
grandi nomi di artisti emigrati in cerca di fortuna dovremmo meglio considerare
chi, come Partinico, sapendo bene le difficoltà e il declino che viviamo, non
solo nelle attività legate al mondo dell’arte, ha deciso di non potere fare a
meno della luce siciliana, magari in solitaria pedalando su una bicicletta, fra
costa e campagne, quasi nella necessità di sentire
la vita della natura e forse meno quella degli uomini, che in realtà abusano
della millenaria pazienza del creato.
Ho conosciuto
meglio Partinico da qualche tempo, casualmente.
Già ne
apprezzavo la produzione fin dalla frequentazione delle sue personali alla
galleria del Banco di Sicilia. E, tuttavia, l’impronta che queste opere di
Partinico mi hanno suscitato fin da allora, non si sono mai ricoperte di
polvere, insieme alla considerazione per i suoi temi fondanti, per le sapienti
atmosfere create, per la forza che egli sa imprimervi. Penso al ciclo dei
cavalli così eleganti, che sembrano ritmati musicalmente, senza ombre di
leziosità o di maniera, così dinamici, quanto sono statici e irrealmente
metafisici nella loro solennità sono quelli di De Chirico, pur grandissimo
Maestro. Partinico mi ha richiamato, nel nostro incontro ultimo, le atmosfere
della Camera ad Arles di Van Gogh, e
certi interni dell’iperrealista Sergio Ceccotti, restando però sempre il legame
che si avverte con il suo universo essenziale e personale.
Pittore di qualità
raffinata anche tecnica, Egli non è ascrivibile a nessuna scuola o corrente, la
riconoscibilità di Enzo Partinico segue il suo sigillo e marchia le sue opere.
Ma non è tutto.
Partinico in realtà è un mistico cantore di una verità non solo legata alla
terra o alla storia. Egli sente, vive e realizza le sue opere con una
significativa apertura al sacro (che non vuole dire fare arte sacra come la si
intende comunemente), alla trascendenza, al mito, al numinoso come ci fu indicato da un Mignosi, da un Maritain,
da un Ries e da un Eliade e così ben teorizzato da Scruton.
Il suo
orizzonte è quindi catartica immedesimazione nella totalità, anche nei
labirinti del dramma, nella solitudine, nell’abbandono, nella dialettica
egoistica che costella il nostro tempo infame.
I silenzi dei
fiori, della natura, che Partinico ci dona hanno un alfabeto arcano nella
scansione di sequenza e piani, di stati d’animo lirici e di riflessività
costanti, che ricompongono in armonia la bellezza che non ha paura di
nascondersi, di mimetizzarsi.
Ecco, la scelta
di Partinico non è la trita arte per
l’arte, è piuttosto la idea in atto di una trascendenza che può solennizzarsi
nell’atto, senza pseudo concettualismi cervellotici e falsi.
Per Partinico
non useremo neppure la formula restaurativa del ritorno alla pittura, dato che la pittura e l’uomo Partinico vivono
da sempre in simbiosi, in spirituale e non delebile rapporto.
La complessità
di alcune opere, si pensi a quelle dedicate a Palermo, con emblemi e simboli che
si incontrano e si completano nelle composizioni floreali non sono mai da
intendere come ornamento “gentile” e a latere, ci comunicano quanto autentico
sia l’anelito senso di una origine pura.
Non troveremo facilmente
fra i social e i tomi illeggibili di critici autoreferenziali e le statistiche di
utilitaristici mercanti d’arte, grandi notazioni e interessate valutazioni per
le opere di Partinico. Ed è un bene per il nostro artista, non essere sceso a
patti nell’arena della competizione strumentalizzata della vicenda artistica
dei nostri tempi.
Si può
benissimo, infatti, come ha insegnato Hanna Arendt, stare ad osservare da
spettatori dello scorrere delle vicende, sapendo che il grande e vero giudice
di chi le sa scoprire e la qualità in una storia che appartiene più alla
durata, alla realtà antologica, che alla cronaca del consueto.
Nei suoi
singolari cromatismi di luci e silenzi, nel suo lavoro svolto senza posa, nella
scelta della contemplazione, che diviene esistenzialità e conoscenza c’è tutto
il segreto di un autentico Artista, quale certamente è Enzo Partinico.
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