di Salvatore Lo Bue
No, non è la terra desolata la terra del poemetto di Tommaso Romano. Aprile, in essa, non è il più crudele dei mesi, nessuno gioca a carte col destino né la morte trascorre vittoriosa tra i versi e le vite. Nessun Phlebas ha posto in questi incruenti, vuoti, adiposi giorni del primo decennio del nuovo millennio: il nulla si è riassorbito, non pretende una più o meno evidente origine: è, semplicemente, diventato niente, un niente da cui niente è e niente deve diventare.
Siamo diventati gli uomini vuoti, gli uomini impagliati cantati da Eliot, quelli “che poggiano l’un l’altro/ la testa piena di paglia”: tutte figure “senza forma”, tutti ombre “senza colore”, paralizzati dalla energia mai spesa, nei gesti privi di movimento.
Gli uomini che non hanno occhi, che si svegliano soli, vivi “nell’altro regno della morte” che è l’anima senza sangue e il corpo senza spirito, perduti senza perdizione nel vuoto regno del niente.
E niente accade se non la vuota negazione in questa terra ormai più neanche desolata, perché anche la desolazione l’ha lasciata, e la tentazione stessa si è ritratta perché neanche degni di essere tentati sono gli uomini impagliati. Perché sempre “Tra l’idea/ e la realtà/ tra il gesto/ e l’atto/ cade l’Ombra. Tra la concezione/ e la creazione/ tra l’emozione/ e la responsione/ cade l’Ombra. Tra il desiderio/ e lo spasmo/ tra la potenza/ e l’esistenza/ tra l’essenza e la discendenza/ cade l’Ombra.”
Tommaso Romano punta il suo sguardo radicalmente nostalgico su questo nostro mondo nientificato. La sua nost-algìa è dolore del ritorno, rimpianto più che disincanto, desiderio di fuga più che viaggio. Il poeta sa, e ne rivela il dramma insipiente, che “è questo il modo in cui il mondo finisce/ non con uno schianto ma con un piagnisteo”, ma il piagnisteo evita, con una visione concreta, minimale, visibile del suo disagio originario. Orami il tempo è passato, a grandi passi si annuncia il tramonto e tutto si stempera nella piena consapevolezza della cenere che il tempo ha deposto, ma nella umiltà del poeta è compresa la sua fragile ma mai arresa denuncia dell’ideale perduto.
“Ora che il tempo
ti ha distaccato
da tutto
guardi e vivi quasi
da greco filosofo”
così fra strade
antiche e nuove
Montevergini, Albergheria,
Borgo e Serradifalco.
Ma quale greco e quale filosofo
volete che sia,
utile a voi, forse,
per incensare le vostre miserie
le pseudoscienze delle vostre frustrazioni
la “poesia” del vostro smarrimento
dell’incapacità a essere
se non la pagina in cui desiderate
onori immeritati
pagine di comparaggio
di miserie civettuole
sterco del maligno
che chiamate errore
e che amate trastullare
come un orpello bello
per la vostra miseria
infinita.
Sì, ha vinto il banale, “tutto ciò che ci incatena” prima dell’orizzonte, la speranze del mutamento, perché non è facile fondare “dentro di sé/ prima che in altri/ la libertà”. Ha perduto il cuore dell’uomo nell’universo mercificato, che contrabbanda democrazia e acquista tirannia, che ha rifiutato la tecnica, perché “tutto è relativo ormai/ e tutto è nulla annunciato/ nel deserto dei cuori”: Dio stesso è stato frantumato come l'antico Dioniso dalla specie titanica, perché sono tornati gli antichi Titani, i Giganti della montagna, i segreti Dominatori di una terra che hanno preteso senza vita e senza poesia. E che per primo hanno fatto fuori, perché unico ostacolo ai disegni del Male, il Salvatore, il Cristo dell’Amore, il Logos del principio, con la complicità dei mortali che adorano solo il denaro.
O Cristo,
sei venuto per nulla
profeta fra tanti
forse un po’ petulante
nella adagiata livellata consuetudine altrui.
O Cristo,
non t’immischiare
finché non ti sfrattano del tutto
per un minareto
o un teatro delle beffe
o un comizio
o per far prosperare topi infetti.
T’hanno sfrattato, infatti,
caro il mio Signore,
non conti nulla
- e forse è bene così -
non mischiarti
e lascia a pochi
e il sangue e il corpo,
pochi appestati
fedeli al sempre.
Così prende nuovo vigore, nel poemetto di Tommaso Romano, la profezia terribile della Leggenda del grande inquisitore di Fedor Dostoewskji. Se intollerabile è il peso della libertà (e Cristo è la Libertà) allora è necessario deporre il Messia ai piedi degli altari falsi e bugiardi, affidarlo alle cure di tutte le chiese perché possa essere anestetizzato, ridotto, umiliato, nuovamente deriso. Perché, in fondo, “Dio/ non solo non c’è mai stato/ ma neppure ha dato e creato/ men che meno nella rivoluzione/ di sé”; e nella trasmissione delle età, che cosa sono quelle antiche storie di salvezza se non “favole imbelli/ per bimbi di una volta/ con giglio e marsina”? E ogni pensiero libero è eresia, ogni libertà un oltraggio nella terra non più desolata abitata dal niente, perduta l’anima, dimenticata la legge, oltraggiato il cuore. Hanno vinto i Giganti della montagna, ha vinto il potere illuminista, l’idea di progresso ha perduto la strada dell’ideale, ha dimenticato il nome del cielo. Dai pontefici “nuovissimi” ai “nuovi potenti che odiano il genere umano” così sottilmente parlando per suo favore ma in verità spegnendo con cura la luce di ogni anima viva che resiste ma che prima o poi si spegnerà, tutto si perde, tutto diventa inutile, vacuo, disperante, mortale. Quale mondo ci attende ora che tutto come sempre continua, ora che niente si ferma e precipita nell’abisso orrendo dell’oblio? Perché niente vale, non c’è più futuro e niente vale la pena.
Non vale pena alcuna
la testimonianza
non si quantizza, non rende
strano il testimone isolato
cantore di Verità,
ma la verità non esiste
quando lo capirai veramente, siamo seri,
l’apocalisse è soltanto un testo letterario
pensa piuttosto a tesaurizzare
il resto si vedrà
se vuoi non perdere
il preziosissimo tempo passato a pensare,
dopo vedremo
non si può
favoleggiare
il futuro
dato che forse la morte
presto s’annullerà,
stiamo alacremente lavorando al fine
tutto s’allunga
non si sa per qual fato,
intanto, lavorare
per l’ingranaggio infallibile
non pensarti mai
lavora
produci sempre più,
la stanchezza non esiste
se non per gli eletti
gli unti del dio terreno massimo,
In questo mondo dominato dalla assenza del Logos e dalla potenza di una vuota Comunicazione che niente comunica e tutto decide e impone che cosa resta allora? Morire? Arrendersi? Resistere? Illudersi? Credere? Fuggire? La terra degli uomini vuoti è potente perché niente più della vuotezza concede spazi al Male. Ma al poeta che resta?
La Parola non muta, la bellezza è luce e verità. L’anima del poeta è già salva fin dal principio. Ma occorre un riparo, uno spazio in cui la Luce possa essere custodita, in cui la Vita appaia nello stesso tempo ma in tutti i tempi diversi che la con pongono.
Occorre una stanza del cuore, che sappia reagire all’oltraggio di una società senza scopo, alla invidia degli uomini vuoti, dove attingere l’olio che alimenti la lampada del cuore, dove essere e ritrovarsi intatto come in principio, come quando la sorgente ha cominciato a scorrere e l’acqua della nostra anima era pura, trasparente, appena battezzata dalla speranza. Perché la salvezza è anche un luogo e il regno dei cieli possiamo costruircelo sulla terra, se racconta delle stelle fisse di tutta una vita, delle irrinunciabili essenze che governano ogni bene e la felicità.
Tommaso Romano ha costruito la Casa della Poesia, il suo piccolo regno dei cieli nella sua casa-studio-sacrario di Palermo.
Egli, il Des Esseintes senza disperazione e senza turbamento, traducendo perfettamente senza deviazioni ideologiche la poetica decadente, a saputo trasformare in poesia la sua vita, in arte il suo tempo, in casa la sua anima. Entrando nel tempio sacro della sua unicità, ha reso unico il suo transeunte presente in un presente senza tempo che sintetizza la storia come memoria esperita e mai perduta, che si rinnova in oggi oggetto, quadro, disegno, pittura, scultura che accorcia i tempi e sfiora l’eterno. Il miracolo di questa casa che è il regno dei cieli che ha saputo creare sulla terra d’esordio e d’attesa della sua vita è lo stesso miracolo di questo poemetto che sintetizza, come fosse già scritto da tempo e ora emerso, la storia di un’anima.
Non sono piccole cose, di certo non di pessimo gusto. Non vive Gozzano in questo spazio ideale, platonico, della casa del poeta. Vive l’Idea. Che l’Arte sia più della vita, oltre la vita, prima della vita, come l’Idea nella pianura della verità è eternamente “prima” della cosa in cui si incarna. Che la poesia possa essere una costruzione di memorie non solo trascritte su foglio, ma raccolte sulla strada del mondo, sul cammino a volte doloroso della memoria. Si, il tempo si è fermato dove ha preso dimora la Memoria. E presto il Viandante-Poesia la raggiungerà e abiteranno per sempre insieme, nella stanza miracolosa.
Qui, nel regno dei cieli di Tommaso Romano, “l’esilio delle cose ha una Patria, l'eletto spazio sacro perdona tutto ma non il banale. Qui il mondo si perde, gli uomini restano, per Dio è disposto un altare. Se la sua casa è il Tempio di Tommaso Romano, egli ne è l’altare maggiore, la luce del cero pasquale che non si spegne.
La casa del poeta, il suo regno dei cieli, è l’Unico composto, l’organismo della memoria e della vita vivente nei frammenti raccolti: oggetti-frammenti, kairòi pindarici, elementi di quell’intero dissipante che è il trascorrere delle acque del tempo qui fermate per sempre.
Ma tutto passa.
Ahi, misera passasti.
Nerina è la Vita. Il soffio. Il divenire travolgente. E come un sogno fu la tua vita... E come un sogno è la nostra vita. Così, alla fine il Grido... “Non bruciate le carte,/ non bruciate questo mosaico,/ non smembratelo,/ non disperdetelo/ è amato come perfezione possibile/ s’accresce come Graal d’anima mia/ ... Pietoso grido di chi sa che ha un destino di morte... Ma che di chi non sa che il regno dei cieli non muore mai. E il tuo regno dei cieli lo hai reso eterno, Tommaso, mio amico, in questa invocazione mistica, di cui “resteranno le parole”, perché questo “poemetto d’Ottobre, inattuale” è una al vento, al Vento che dove vuole spira, e ogni cosa che tocca eterna.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.