di Tommaso Romano
Sono
passati circa trenta anni dalla morte di
Renato Guttuso e per il maestro di
Bagheria è venuta l’ora di un sereno confronto storico – critico,
facendo i conti con la sua opera e figura, da necessariamente contestualizzare,
senza perpetuare l’ombra o di una retorica di maniera o di una liquidazione
aprioristica e sommaria che ne hanno invece caratterizzato il percorso lungo
l’arco dell’intera sua esistenza, fino alle polemiche da gossip intorno alla
malattia, alla conversione, alla morte.
Guttuso è
interamente appartenuto al clima culturale del Novecento, secolo breve e al
contempo lunghissimo e mai tanto nodale e sanguinoso, rispetto all’intera
storia del mondo e dell’arte.
Guttuso
appartiene infatti alla storia italiana, calato con tutti i riflessi e gli
influssi – anche ideologici – propri della vicenda, non solo artistica, ma anzitutto
geopolitica del vecchio continente. Tuttavia Guttuso può dirsi anche erede nel
solco tracciato dal vedutismo e dal verismo dell’Ottocento siciliano.
Come
scrisse riassuntivamente Enrico Crispolti «il rilievo della personalità
guttusiana è nel segno di un’individualità creativa molto forte, malgrado
l’ampiezza del dialogo culturale di volta in volta istituito. È, malgrado
tutto, nella sua unicità, che si iscrive storicamente, avanzandone spesso
affascinanti mozioni, sostanzialmente nella linea di una grande figurazione che
aspira ad offrire il volto dell’uomo del nostro tempo nella sua contingenza
storica e nella verità quotidiana della sua esistenza. Una figurazione la sua,
che si fa partecipe dell’immaginario collettivo, intrecciando la propria
memoria a risultanze antropologiche o culturali, in un riscontro d’ampio
respiro fra individuo e società”.
Già a partire
dagli anni Trenta del ‘900 possiamo rintracciare le costanti del tessuto
ideativo guttusiano: le coloratissime botteghe bagheresi, i carretti con
dipinte le battaglie carolinge, di cui il giovane Renato resterà per sempre
segnato, con il magistero dei Ducato e dei Murdolo, con il rapporto con Buttitta
Civello, Giardina, Pippo Rizzo con il suo personale futurismo siciliano. Del
giovane Guttuso vanno ricordati gli affreschi nella chiesa di Aspra, la
partecipazione con Nino Franchina, Lia Pasqualino Noto, Giovanni Barbera al Gruppo dei Quattro, la partecipazione alle
prime Sindacali fasciste, fin alla fronda con la c.d. “sinistra fascista” di
Bottai e la sua rivista Primato”, di cui Guttuso sarà collaboratore fin agli
inizi degli anni Quaranta, e che gli dedicherà un famoso numero monografico. Verrà
la svolta radicale con al PCI clandestino a cui Guttuso si iscriverà e poi con
la Resistenza e la successiva militanza. Fino al conferimento del sovietico
Premio Lenin.
Il suo modo
di rappresentare il realismo sociale nelle dichiarazioni plurali e nella rete
comunicativa che il cromatismo, a volte esasperato, evidenzia nella sua pittura,
con il segno netto dei suoi disegni, che mettono in luce la «espressione di
umanità e vita» e la sua idea fondante di pittura e di epos collettivo.
Certo,
Guttuso non fu immune dal ripetersi, con un numero di opere – specie grafiche –
di largo consumo e non sempre “deontologicamente plausibili”.
Tuttavia, è
certo che a partire dalle tavolette, dalle donne alla fontana (conservata a
Palazzo Comitini di Palermo), dai ritratti, la lezione del Novecento si mischierà
alla sollecitazioni liriche della
pittura di un Martini e di un Carrà, e poi a quella di Picasso. Centrale sarà
la Crocifissione (1940-41)
guttusiana, esposta al Premio Bergamo. Poi via, via con una forte insistenza, si
indirizzerà ai temi e al clima della vita contadina, alle lotte sociali,
all’analisi figurativa esistenziale delle condizioni della gente comune, tutte opere
calate nella realtà e di cui l’articolo in “Nuovi Argomenti”, I comunisti e l’arte (Roma, maggio –
giugno 1953) resterà sintesi di una presa di coscienza intima e insieme
politica che sfocerà, a volte, nell’esibito ideologismo. Nell’altro articolo Sulla via del realismo, Guttuso tenderà
a sottolineare tutto ciò che considera come esemplare di una “immagine
popolare”, secondo i canoni socialisti.
Realismo
sociale e realismo della condizione esistenziale si intrecceranno così in una aperta
denuncia dello stato presente, in una lotta – corpo a corpo, direi – con
l’espressione che cose e uomini propongono alla storia, in un turbine di
passionalità, che connoterà comunque sempre la visione politica oltre che
quella artistica. Una realtà, come dirà a Dario Micacchi (su “L’Unità” del 27
dicembre 1981) che è tale “anche se è sogno” e che, per molti versi, è parte
del suo stesso conflitto con la memoria, malinconia e la narrazione di sé, come
poi li ritroveremo in Spes contra Spem,
opera del 1982.
Ancora nel
1983, in un’intervista, Guttuso sosterrà che «se uno è capace di tradurre
l’infelicità in malinconia, ecco questo è per me molto produttivo”.
L’interpretazione psicologica dell’opera
di Guttuso è in tal senso sottolineata come essenziale da Testori, Briganti e Calvesi, e si raccorda
con quella interpretazione espressionista
e del neorealismo tipica delle impostazioni critiche dei Trombadori, De Grada,
Argan, fino a quella ancora detta vitalistica
di Longhi. Più in generale, ciò si esplicita in Guttuso nelle grandi opere di
impegno storico-civile (La battaglia del
Ponte dell’Ammiraglio, 1951-52, I
funerali di Togliatti, ma anche con la straordinaria anticipazione, del
1938, della fucilazione in campagna, nonché con la Fuga dell’Etna e lo zolfataio ferito, dello stesso periodo).
Il ritratto della madre del 1940,
è ancora la concreta adesione personale di Guttuso ad una poetica del reale che
egli metterà già in evidenza, proprio su “Primato” (del 15 agosto 1941) nel suo
articolo Pensiero sulla Pittura:
“Perché un’opera viva, bisogna che l’uomo che la produce sia in collera ed
esprima la sua collera nel modo che più si confà a quell’uomo. Un’opera d’arte
è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata”.
Sul
versante strettamente realistico ecco
le opere del dopoguerra e in specie l’opera del 1949-50 Occupazione delle terre incolte in Sicilia che, al di là di alcuni
limiti formali e dissonanti, già sottolineati da Giuseppe Marchiori, sono però
da inquadrarsi in quella sorta di dichiarazioni-manifesto che lo stesso Guttuso
chiarirà nel testo Sulla via del realismo
(in “Società”, marzo 1952) in cui, fra l’altro, afferma: “Oggi possiamo solo
dire che esiste una corrente, un gruppo di artisti che è incamminato sulla via
del realismo è per noi: “Una guida per l’azione”, una condizione di lavoro, non
una formula o una scuola”. Oltre a Gramsci, nel citato testo si cita Stalin,
per controbattere “al cerchio chiuso delle aristocratiche formule idealistiche”,
ed anche polemizzando duramente con l’astrattismo e per quelle che egli evidenzierà
come non certo autentiche novità: “Le scoperte dell’arte moderna non sono i
triangoli, i quadrati, le forme pure. Ed è nella realtà e nella vita che si
trova “il linguaggio” e che si operano “le scoperte”. E non è possibile e non è
vero che quel linguaggio che è stato scoperto per raccontarci un mondo di
chitarre e di fruttiere e di carte da gioco e di bottiglie impolverate, serva a
quella ripresa di contatto con la realtà e con la vita serva ad esprimere la
realtà e la vita”. Ancora, “se per esempio un pittore vuole rappresentare un
gruppo di contadini al lavoro, questo pittore avrà il problema di scegliere dei
tipi determinati, di fare ed esprimere ai loro volti determinati pensieri,
dovrà dar conto di un certo lavoro, di un certo paesaggio, di una certa ora del
giorno. Questi sono e sono stati sempre
i problemi della pittura. Questi sono i nostri problemi formali. Ed è per
questo che hanno grande importanza. Un’idea diventa suggestiva, convincente,
penetrante, solo in virtù di una forma bella, armonica, perfetta. Ma non esiste
né può esistere una forma bella, armonica, perfetta in sé, che non sia forma di
qualche cosa, che sia la forma del nulla; perché il nulla non ha forma”. Concludendo
il suo articolo Guttuso affermerà perentoriamente che “l’arte oggi si dibatte
tra questi due poli: un’arte astrusa, intellettualistica, che nega la realtà o
si compiace di offenderla nell’amore morboso del deforme, e una figurazione
grigia, fotografica, fatta di esterne verosomiglianze, di falsità, di tristezza
accademica. Al di sopra di questi aspetti sia fa strada la corrente realistica,
la quale aspira ad un arte, ad un pittura che non nasca nel chiuso dello
studio, frutto di riflessioni astratte, di condiscendenza alle mode
cosmopolite, di ispirazione e fattura conseguente all’opera di altri artisti
(secondo la teoria decadente di A. Malraux) e alle riproduzioni sulle riviste,
ad una pittura che non si serva di formale buone indifferentemente per un
pittore bulgaro, australiano, cinese e per un pittore italiano: una pittura
legata alla vita e alla società moderna, ma (come sempre è accaduto nella
storia e si pensi ai due grandi momenti di Giotto e di Caravaggio) non a quel
che di questa società è rinsecchito o in decomposizione ma quello che
progredisce ed avanza. A quelle parte della società che porte le nuove idee, le
nuove energie, che si avvia a costruire un mondo più libero, più giusto, più
felice. Un’arte dunque chiara nella sua forma, ottimista ed edificante nel suo
contenuto, un’arte legata ai motivi profondi della nostra tradizione ma nutrita
della nuova storia dell’umanità portavoce delle sue lotte e delle sue
speranze”.
La necessaria
e non breve citazione, si concludeva con l’auspicio di un “legame più diretto
con la vita e col popolo”, per “continuare quei caratteri e quelle tradizioni
che se si subiscono passivamente e scolasticamente sono una remota accademica e
conducono alla fredda esercitazione. Ma che diventano strumenti di coscienza
dell’animo popolare e punti di bellezza e di poesia quando sono utilizzate alle
elaborazione e all’espressione della nuova realtà”.
A queste
linee e teorie si rifarà quindi Guttuso negli anni seguenti a quelle
dichiarazioni, pur non mancando di “trasgredire” in certi lacerti narrativi
come ne La spiaggia (1955-56), oltre che
nella raffigurazione di paesaggi siciliani
e romani e della residenza di Velate. Ancor più in Roch and Roll del 1958.
Le nature
morte, gli interni, i nudi, “La
discussione” (1959 – 60), l’unica opera scultorea “L’edicola” oggi a Villa Cattolica a Bagheria, ricondurranno
l’artista alle linee anche compositive
più complesse che nel ’68 avranno compimento prima nel raffigurare nell’opera Giornale murale, in piena aderenza a
quel particolare clima storico, che corrisponde al grande travaglio dell’est
Europa ancora sotto il tallone sovietico e che avrà simbolico compimento con la
morte di Jan Palach che si dà davanti ai carri armati del Patto di Varsavia, in piazza San Venceslao a Praga.
Del tutto
esemplare è un’altra opera di Guttuso del 1969 la Distruzione di Sodoma, parte di un ciclo allegorico, biblico,
inteso come “prefigurazione della catastrofe
finale delle metropoli moderne”. Un’opera a suo modo “apocalittica”, ben
lontana da arcadie ottimistiche di certo falso progressismo e storicismo di
maniera, ancora peraltro assai in voga in quel periodo. È una città che esplode in un groviglio di tubi
e fra corpi inermi nel rosseggiare, tipico della tavolozza di Guttuso, capace
di evocare. Il terremoto siciliano del 1968 è ancora occasione di introspezione,
analisi del terrore, compimento di distruzione, smarrimento (vedi Le notti di Gibellina), che pure la
natura può provocare, non certo benignamente.
I Funerali di Togliatti del 1972 – con una
selva di bandiere e di ritratti di leader comunisti – sembra rendere omaggio estremo non solo al proprio riferimento ideale e politico, ma
a quella parte che sembra già avviarsi fra slanci e incertezze sulla via dell’eurocomunismo
dal volto umano e procedere verso uno sganciamento lento dall’orbita sovietica.
In un miscuglio
di nostalgie e di speranze va quindi letta l’opera di Guttuso.
La molto
celebrata Vucciria (1974) e il Caffè Greco (1976), saranno così le
efficaci e ulteriori citazioni di un mondo
e di personaggi che, sul crinale della vita del Nostro, si riproporranno con i
temi memoriali, il ricordo di figure care (è il caso del ritratto esemplare dell’amico
Giacomo Giardina, che compare nell’edizione Ila Palma palermitana, delle
liriche del poeta pecoraio ambulante).
In una
significativa intervista della fine degli anni ottanta, Guttuso dichiarerà che: “invecchiando, andando avanti
negli anni divento più “romantico” e cerco di spiegarmi. Sento il bisogno di
affrontare il mistero che c’è nelle cose. Nei quadri il contenuto vero di un
pittore non cambia perché è il contenuto di se stesso, è quello che è. Cambiano
però le illusioni sul modo di manifestarlo. Alcune se ne vanno, ne nascono altre,
si attacca alle nuove e ai nuovi
desideri. È il passato … bisogna saperlo vedere, bisogna capirlo e servirsene
per andare avanti. Io mi attacco sempre più al passato”.
Tornano così
i simboli, i miti, le consuetudini antiche (Giocatori
di scopone, 1981), i misteri, e nell’opera La visita della sera del 1980, sembra farsi prepotente la necessità
metafisica ne L’ora della tigre e nel
Bivacco di streghe (1980), in Spes contra Spem del 1982, tutti gli
elementi e i volti si coniugano in affresco. Dopo l’esperienza politica diretta
di Guttuso nel PCI (nel 1983 non vorrà riproporsi al Senato) lo sguardo si rivolgerà ancora una volta alla
natura, specie nell’Eruzione dell’Etna
(1983), in cui quattro personaggi di spalle osservano i fiumi di lava come
nell’opera di Friedrich, dove l’uomo in piedi e solo osserva l’infinito, esattamente
allo stesso modo dell’opera di Friederich, Il
viandante sul mare di nebbia, del 1818, una icona romantica certamente non
avulsa dalla poetica conclusiva di Guttuso. Le citazioni finali, gli interni,
la contemplazione ancora carica di sensualità e di nostalgia per la donna, una
religiosità naturalistica chiuderanno il ciclo e il sipario di una esistenza
che all’arte ha molto chiesto e dato, lasciando ampie e significative tracce in
quelle opere, a mio avviso nodali, che ho prima ricordato come significativi
exemplum. Senza trascurare, però un certo compiaciuto ed esibito ricorso
all’ovvio, più che al reale, elementi che pure hanno connotato tante produzioni,
quasi seriale, del maestro bagherese.
Compreso e
ostacolato, emblema anche di contraddizioni, Guttuso visse i miti della rivoluzione
sociale come palingenesi, non sempre rendendosi ben conto di essere “strumento
del principe”. E qui bisognerebbe rileggere anche il rapporto, poi divenuto scontro,
con Sciascia.
E,
tuttavia, di Guttuso restano non poche opere significative espressione di una stagione irripetibile (che
tardi epigoni cercano ancora inutilmente di perpetuare pittoricamente, come
scolari immaturi), resta il mestiere e la sensibilità, resta soprattutto la
fedeltà alla pittura, l’essere – oltre la retorica del suo stesso linguaggio –
un autentico pittore, un’artista che ci ha pure trasmesso, sapendo e volendo discernere,
un’ethos ed anche un’epos.
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