LA DISTINZIONE COME NOBILTÀ NEI CAVALIERI DELLO SPIRITO
di Giuseppe Bagnasco
Dopo l’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel e
il più vetusto Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, tra i più rinomati e
che si “distinguono” dai tanti, per gli argomenti similari trattati nel campo
della disquisizione antroposociologica, ecco l’arrivo sul tavolo delle nostre
“distrazioni”, quasi a completamento di una sorta di Trilogia, L’Elogio della Distinzione
(Fondazione Thule Cultura – Palermo 2016) del filosofo Tommaso Romano. Non è un
trattato ma un “manifesto”, una riflessione non confessionale, sullo stato e
condizione contingente e spirituale a cui è pervenuta la società contemporanea
del mondo che per semplificazione chiamiamo “occidentale”. Un manifesto,
dicevamo, che si può leggere alla stregua di un manuale di regole educative,
senza per questo assumere i connotati di una filippica sebbene a tratti appaia
come significativa e volitiva “omelia”. Né poteva essere diversamente per
l’argomento affrontato e che spazia per tutto l’arco della devianza nei
comportamenti “tradizionali” dell’uomo odierno.
Per potere scrutare a primo acchito il
poderoso testo e carpirne le parti più salienti, visto che è composto da ben
tre “corpi” relativi ad un saggio dell’Autore, un saggio dell’illustre
Amadeo-Martin Rey y Cabieses e un ricco e unico Florilegio di Autori, ci viene
in soccorso il sottotitolo: Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo
di barbarie. Non c’è alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una
esplorazione storica e sociologica su ciò che questi “titoli” hanno
rappresentato e che l’Autore sottolinea
con l’intercalare il testo di disegni riferiti a momenti d’azione della
Cavalleria d’un tempo con schiere
cristiane affrontanti le saracene e la raffigurazione nell’antifrontespizio della
sagoma idealizzata del Krak (fortezza crociata in Siria) dei Cavalieri
Ospitalieri di Gerusalemme divenuti poi di Rodi, infine di Malta e oggi
rappresentati dallo SMOM.
Tommaso Romano, non nuovo nell’esposizione
di “tesi teologali” sullo spirito, da buon cristiano di fede qual è, mette al
servizio del dettato di Dio, la vestitura armata del distinto “Cavaliere dello
Spirito”. E lo fa discettando sui temi sopraindicati, a cominciare dal concetto
di Aristocrazia, distinguendo quella di spada da quella dello spirito. L’aristocratico, nel composto della semantica
greca di aristòs (eccellenza) e cratòs (potere di governo), delinea una persona
che si governa da sé e per espansione, colui che si isola dalla folla. E per
folla, come afferma l’Autore, s’intende quanti sono accomunati nella volgarità,
rozzezza, dozzinalità e violenza del comportamento nelle parole come negli atti,
fino ai modi. Tuttavia, sempre nel proseguo della ratio in Romano, l’isolarsi
dalla realtà, l’eccessivo autocontrollo, compresa la mancanza di ironia, non
consentono l’educazione alla nobiltà che, di contro, si consegue nella capacità
del saper scegliere il confacente rapporto con il prossimo. L’aristocratico è
pertanto la persona distinta, custode di quei valori che dovrebbero armare i suddetti Cavalieri per conquistare “nelle
steppe del nulla, la Gerusalemme Celeste. Il tutto”. Oggi che il
“progressismo”, l’innaturale livellamento sessuale, l’omologazione alla
massificazione, portano ai conseguenti disvalori, fra tutto questo declinare un
posto privilegiato è riservato ad una virtù d’eccellenza: l’Onore.
Ora, a prescindere dalle valutazioni sottolineate
dallo storico Franco Cardini che lo conforma a dignità personale, reputazione e
onorabilità comportanti il diritto della
persona al rispetto e alla stima, bisognerebbe qui aprire uno spaccato su
questa virtù che, a parere non solo nostro, incardina tutte le qualità del
“buon uomo”, del buon cristiano ma che non si riflette nel diverso homo bonus del
poeta Marziale. Incominciamo, purtroppo, col dire che le culture della
menzogna, dell’ipocrisia, hanno inferto una profonda e dolorosa ferita nel
comportamento deontologico degli uomini e in particolare nel malinteso senso
dell’onore soprattutto se riferito alla latina sacralità della parola data, pacta
servanda sunt, come comprova, per mantenerla, il sacrificio del console Marco Attilio Regolo. Pensiamo
ad esempio a quanti giustificano un loro scomposto agire con un’alzata di
spalle o con quel “Je m’en fous”, di recente pronunciato dal Presidente della
Commissione Europea Juncker e che fa comprendere quale ingloriosa fine abbia
fatto quel certo bon ton!. Ma la trasgressione del senso dell’onore ha antica
data giacchè la ritroviamo, spulciando la mitologia greca o passi della Bibbia,
nei racconti del “padre” Zeus che ricorreva al travestimento e finanche alla
sostituzione di persona per sedurre con l’inganno le belle mortali o come nella
vergognosa e subdola condotta di Re David quando mandò in guerra, in prima
linea e quindi alla morte Uria, lo sposo della bella Betsabea che aveva sedotto
e che comunque poi da vedova sposò. E ancora, non possiamo elencarli tutti, nel
tradimento fatto da un certo Horatio Nelson nei confronti dell’Ammiraglio
Caracciolo (la resa in cambio della vita) e che invece fece impiccare sulla
murata della sua Victory contravvenendo come un volgare pirata alla parola
data. Infine, ricorrendo alla Storia, ancora sull’onore tradito, quando Enrico
IV di Francia pur di mantenere salda la sua corona abiurò alla sua fede
protestante e abbracciò quella cattolica con un probabile e analogo “Je m’en
fous” nel famoso “Parigi val bene una messa!”. Ma i dettati del codice d’onore
hanno sempre governato, lungo il corso dei tempi, gli uomini giusti e probi e
ciò sin dai codici cavallereschi del Medioevo giungendo per alcuni tratti, perfino
a quelli non scritti dell’onorata società, uniformemente intesa in tutto il
nostro Meridione e giunta, con l’emigrazione “imposta” dopo la sua
piemontesizzazione, fino alla “frontiera” dell’Ovest americano. Erano codici
che tutelavano l’onestà della donna, intoccabilità dei bambini, la parola data,
con in aggiunta il divieto di sparare alle spalle o ad un uomo disarmato. Norme
non scritte nella vita che, fino all’abolizione formale del feudalesimo, si
conduceva nei feudi e che era regolata da un castaldo, un soprastante, un
fattore che amministravano la giustizia “parallela” essendo i feudi luoghi
spesso “inaccessibili” anche alle compagnie rurali dei governi del tempo.
Nacque lì la vecchia “onorata società” da non confondere con la successiva
malavita organizzata o coi “picciotti” di La Masa che furono, ma ancor prima in
letteratura nei manzoniani “bravi” di Don Rodrigo o nei severi “tribunali” della
setta panormita dei Beati Paoli di natoliana memoria, il loro capostipite. Era
quest’ultima una “Confraternita” segreta, come afferma il Villabianca, di
uomini valenti che perseguivano i valori della difesa dei deboli e della
giustizia pur rimanendo nelle loro feroci sentenze ferventi religiosi e credenti
in Dio e al Santo di Paola, a cui si richiamavano. A uomini di tal fatta, a
questi “uomini d’onore”, si deve l’appellativo di “cristiano”. Ma torniamo all’Elogio
della Distinzione e al tema della Ecosofia affrontato dal filosofo Romano nel
riconsiderare il senso della abitazione in cui si vive.
Al pari di Francesco Alberoni che nel novero
della scienza della comunicazione include quella che avviene attraverso il
vestire certi abiti dando a questi la facoltà di dare un messaggio su chi li
indossa, così il Nostro attribuisce lo stesso significato all’arredamento e al
gusto di disporlo in un certo modo nella dimora di una persona dalle qualità
“aristocratiche”. E questo come proiezione della propria identità dedicando tra
gli arredi anche uno spazio ai ritratti dei propri antenati a guisa dei Lari e
dei Penati dei Latini. Completano, conclude Romano, la bellezza della dimora,
non necessariamente un palazzo, il poter accudire l’eventuale giardino di casa
o il curare il collezionismo al pari di un personale museo, considerando
entrambi come manifestazioni secondarie del gusto del dimorante. Con questo
fare si può contrastare, aggiunge l’Autore, il completamento dell’ecatombe che
incalza e principalmente col formare, con persone che in ciò si riconoscono,
una sorta di patriziato civico di pochi ma decisi “Cavalieri”. Titolo di
nobiltà, ammonisce il Nostro, che non deve essere acquisito tramite sedicenti
Istituti che l’elargiscono dietro compenso essendo insita la possibilità di poter
incorrere così, in quel “Todos Caballeros” che l‘imperatore Carlo V concesse a
certi postulanti sardi che lo reclamavano. Frase che oggi viene usata in tono
dispregiativo annullando di fatto la distinzione o il prestigio dei pochi che
lo meritano.
Fatto salvo questo primo “tomo” che forma il
“corpus iuris” principale dell’Elogio della Distinzione, essa incorpora altresì
una poderosa antologia, un Florilegio di Autori che espongono le loro frasi,
trattazioni, aforismi nel reticolo degli argomenti qui esposti, con particolare
riguardo al significato di Aristocrazia. Pur tuttavia di questi Eccellenti non
ci è possibile citare tutti i nomi dal momento che in dettaglio l’elenco supera
le cento pagine. Fa da cornice a tanto disquisire, un prezioso saggio del nobile
spagnolo Don Amadeo-Martin Rey y Cabieses, storico e critico nell’ambito
araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che
ne approfondisce lo studio, con un particolare riguardo a quello genealogico italiano.
Il saggio dell’Illustre, Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della
Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro
Corrispondente del Collegio Araldico di Roma, risulta diviso in Nobleza,
Aristocracia e Caballeria, speculari in qualche modo al sottotitolo dell’Elogio
della Distinzione. Nella reflexion final l’Illustre raccomanda il rispetto
della palabra dada, la bondad y la generosidad e la valentia y la humildada de
corazòn perché solo la loro actuaciòn es la mejor aristocracia , cioè quella
del poder de la bondad.
Alla termine di queste note, una riflessione,
anche se non esaustiva, di quanto ci resta, speriamo in seguito non in briciole
di memoria, della meritoria opera del “mosaicosmico” Magister. Senza scadere
nella facile apologia di maniera, si resta “impressionati” da questo album di
fotografie-commentario che, senza tema di supponenza, potremmo definire “De
humanitate destructa”, giusto per parafrasare i commentari cesariani, nonchè coinvolti
dall’afflato che traspare dalla malcelata angoscia con cui l’Autore esamina
l’uomo sedotto e concupito dalla Tecnolatria dalla quale non si può distaccare
senza il paventato pericolo di non apparire “politically correct”. Il richiamo
risulta un accorato appello a quanti si avviano ciecamente verso l’abisso
dell’anima trascinando con sé duemila anni di cammino e di acquisizione di una
civiltà della quale restano testimoni ineguagliabili città uniche come Atene,
Roma, Alessandria, Gerusalemme, Venezia, Pietroburgo. Un richiamo quindi per
impedire a costoro di non finire aggrappati, in un rigurgito di ravvedimento, a
quella “Zattera della Medusa” che tanto bene rappresenta la deriva di uomini
disperati, il dipinto di Theodore Gèricault. A ben vedere, l’Elogio della
Distinzione costituisce una sorta di testamento spirituale del Cavaliere dello Spirito
Tommaso Romano, appartenente purtroppo all’esausto filone di un certo nuovo
romanticismo, non letterario ma spirituale nel senso che si richiama al Passato
vestendo la parola di “Redentore” di una certa cultura. Un testamento
spirituale, dicevamo, che si coglie in questo Discepolo della Cultura che quale
Pellegrino del Cosmo chiude questo pregevole lavoro, con fare quasi
colloquiale, con un congedo, certamente non occasionale. Egli infatti inserisce
al confine dei “tomi” trattati, un testo dal significativo titolo “Congedo al
cafè de Maistre”. E volutamente, prendendone a prestito il nome, sceglie per
siffatto “eremo senza terra”, l’immaginario ricovero in un Caffè, posto di
fronte il mare nel Foro Borbonico (oggi Italico), dove in una atmosfera
pregnante di “art nouveau”, si ritrova a scrivere, tra un caffè e il
centellinare di un Porto, avvolto nell’aria da una coinvolgente musica
mozartiana, una lettera, quasi una immaginaria “epistola apostolica” rivolta ad
una civiltà al tramonto. In questa, da buon Anacoreta occulto, chiama alla
resistenza con quel pudore, riserbo, dignità,
sensi comuni ai pochi frequentatori di quel Caffè, anche se ritiene che
tutto è perduto, riprendendo in ciò la frase di Francesco Primo di Francia
nell’infausto giorno di Pavia, nel messaggio alla propria madre, “Tutto è
perduto fuorchè l’onore”. Ed è nel nome di queste virtù e dell’onore che il
Romano, come in un battesimo liturgico, rinuncia al satana della egemonia
tecnologica e alla dittatura del pensiero unico nello stesso modo in cui rinuncia
agli applausi dei falsi adulatori, esprimendo come unica aspirazione quella di
essere lasciato in pace dentro un immaginario Chiostro. E’ nel contesto di
queste note che il Filosofo appare nelle vesti più dimesse dell’ordinario
umano, svelando una sorta di stanchezza per l’impari lotta contro questo mondo
destinato al declino, riponendo però l’ultima speranza nel salvataggio ad opera
della divina Provvidenza. Si chiude così questa antologia, questo
breviario-manuale di concetti, richiami, esortazioni che, iniziati con la
Distinzione, anima della nobiltà del cuore e dello spirito, giungono al termine
di questo excursus, alla malinconia nel corpo senza tuttavia coinvolgerne
l’anima.
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