Il 2014 ha visto da festeggiato
protagonista - per i suoi 50 anni di
fervida attività artistica – il Maestro Salvatore Caputo, con la periodica
esposizione dei suoi significativi cicli pittorici, ospitati al Centro
Internazionale di Etnostoria di Palermo allo Steri, presieduto autorevolmente
dal Prof. Aurelio Rigoli. Una di queste retrospettive – con ulteriori opere
della assai originale Ilaria Caputa, figlia del Pittore di Castell’Umberto- è
stata presentata da Tommaso Romano e il cui testo è ora parte di un bel numero
monografico della celebre rivista “Etnostoria” che riprendiamo integralmente.
Sarebbe pleonastico, parlando delle
opere di Salvatore Caputo, inutile, ripetere i concetti e le valutazioni
estetico-critiche in tante sedi mirabilmente esposte, ma direi anche
raccontate quasi nel senso di una sequenza anche di umori, di sapori
mediterranei, che non sono certamente né coloristici e fini a se stessi, né
tantomeno marcano una dimensione che molto spesso in Caputo è stata
identificata col surrealismo, sbagliando obiettivo. Quella di Caputo è una
cifra assolutamente personale, come è personale il modo, il senso del vedere,
del guardare con attenzione, che è quella di questa simbiosi, non solo di
padre/figlia Ilaria, ma - direi - di questa simbiosi che continua quasi
miracolosamente, non nella ripetizione, piuttosto alla ricerca di una
perfezione possibile. [...] È la perfezione di Ilaria che si manifesta non
solo, anche se è già tanto, attraverso queste figure esemplari [che si trovano
nei volumi d’arte] indici di un percorso, ma anche esemplari, specialmente in
San Francesco, di una ricerca di quella che già negli anni ottanta/novanta Aldo
Gerbino, a proposito di Salvatore, definiva una “laica sacralità”, perché c’è
un approccio loro, dei Caputo, che va “per li rami” quasi alchemico e
misterico. Non abbiamo forse la consapevolezza di letture particolari, di
sistemi filosofici a cui loro si riferiscono. È però un fatto che li riguarda,
direi quasi con pudore - io conosco Salvatore da quarant’anni, mi vanto di essere
amico suo - eppure è difficilissimo declinarlo concettualmente. Esattamente
come il periodo di passaggio verso la grande stagione... Sono opere che sono
assolutamente foriere di una composizione mistico-sacrale, che ci richiamano a
un realismo magico, che è un realismo che vive nei luoghi e vive anche il
dissidio della dimensione umana e della stessa dimensione della “statuaria”,
che è sovratemporale, atemporale. Questo che poi diventerà il motivo dominante
con le figure quasi in movimento, in cui puoi scrutare, nella duplice
accezione, ciò che vive nel dinamismo e ciò che vive anche nella apparente
staticità. Ma che cos’è, in tale misura, la staticità? Non è affatto uno star
fermi, semmai è sfidare il tempo dei barbari. Cominciano adesso ad entrare ulteriormente
nella dimensione di Salvatore Caputo, nel suo viaggio interiore. E questo
viaggio interiore nasce da quella “materia dei sogni” che poi però è anche un
sogno complesso. Non è il sogno della bellezza soltanto, è grande contrasto,
nella grande dimensione della oniricità in cui vi è anche l’equazione del
dramma. In questo senso, allora, cosa bisogna cercare e trovare? Per ottenere
una cifra personale, per ottenere una realizzazione di sé dopo i contrasti,
dopo le stagioni, magari, delle illusioni? Ecco, a poco a poco questi anni
rappresentano - e compiutamente: vediamo quella grande opera intitolata “Il
giardino di Melia” - la dimensione quasi propria dell’approdo, di questo
cammino dove la solarità si è molto compromessa alle tenebre. Tuttavia la
tenebra, come la luce, ha bisogno dell’ombra, e l’ombra della luce. Così, in
questo richiamo continuo c’è l’approdo, appunto, finale, il tentativo anche di
andare oltre la dimensione spazio-temporale.
"Fiori di primavera", cm 40x50, oli e acrilico su tela, 2013 |
In questi frammenti ci sono anche i
luoghi - si pensi e si “entri” in quell’opera straordinaria “La valle” fra le
più belle di questa mostra e in generale della sua produzione. Noi vi possiamo
trovare tutta una serie di echi anche legati ai suoi luoghi d’origine -
Castell’Umberto, naturalmente; la stessa Ucria,
dove c’è del resto tutta la tradizione etnostorica del Centro Internazionale di
Etnostoria - Fondazione Prof. Aurelio Rigoli, a cui Caputo ha dedicato, tra
l’altro, più di una medaglia emblematica della sua grande versatilità.
Primordiali, che non significano “primitivi”. Primordiali nel senso del
recuperare ciò che è possibile, ciò che non deve essere annullato e sconfitto
da una memoria labile. Vi è anche un richiamo ai luoghi di Lucio Piccolo, alla
Piana di Capo d’Orlando, perché propri nella dimensione metafisica e onirica di
Caputo, con il grande e straordinario cimitero dei cani, che si staglia verso
l’orizzonte, la valle da un lato e il mare dall’altro. C’è questo humus,
intriso naturalmente di miti: dal mito di Helias, ai miti, che ci richiamano ad antiche inquietudini.
Il mito non è un dato soltanto di chiarificazione o di bellezza fine a se
stesso: è un orizzonte, un raggiungimento; è sempre, comunque, una dimensione
in cui vige il contrasto - gli dèi sono in contrasto, gli dèi fanno la pace, ma
fanno anche la guerra - e quindi è la condizione stessa che si sublima rispetto
a quella che è invece tipicamente umana, e, tuttavia, il tempo e il mistero si
mischiano, quindi anche la dimensione temporale si mischia a quella del
mistero. E qui già cominciamo a intravedere, rispetto ai decenni precedenti,
una misteriosa aura che accompagna queste opere: nel silenzio che acquista una
sua solennità; non solo “sacralità”; solennità. Certo, c’è il dato che ci
conforta e ci appassiona dei luoghi, ma c’è anche questa straordinaria capacità
di entrare e dialogare senza profferire verbo, in sintonia. Significativa è
l’opera “Il collezionista”, in cui si compie una grande, straordinaria
collezione di sé, dei suoi paesaggi interiori, della sua dimensione onirica,
del suo mito interiore. Pensate anche a opere letterarie straordinarie, a un De
Goncourt, che descrive la sua casa: mille pagine per descrivere la conoscenza
di una casa! Sono tappe di una vita, tappe di una coscienza che si svela, si
manifesta. E in questo troviamo la parola delle cose, il “respiro più grande”,
direbbe Piccolo; ci sono gli ectoplasmi che a volte noi vediamo trasparire da
queste opere; così come nelle pergamene, che per la prima volta sono esposte e
sono anch’esse lacerti straordinari di una incursione nel tempo, che pure
voleva distruggerle, voleva annientarle, e che Salvatore Caputo salva invece
miracolosamente, lasciandoci, e lavorando come sa fare lui attraverso la
ri-creazione di queste carte stesse, dando la vita nuova, direbbe Dante, con
gli inchiostri di china nelle nuances, che poi si manifestano liricamente
potenti attraverso le luci, le ombre, in quelle pergamene antiche che hanno, in
tutto, il sapore di una storia. Ecco, la storia, che quasi si immobilizza
rifiutando il dinamismo che sovente distrugge e, tuttavia, è storia vera, non
una storia che vuole essere per forza citazione del “bel tempo andato”,
assolutamente. È la storia che riguarda il reale, anche il presente, il suo
presente. Ed è il presente anche di molti di noi che prendono vieppiù coscienza
etica e intellettuale da quella idea che la pittura sia morta e debba essere
confinata tra le anticaglie. È l’idea totalizzante e sbagliata del fondatore
del MoMA di New York, il quale sostiene che non esiste altro che l’astrattismo.
È l’idea, falsamente concettuale, del minimalismo, di istallazioni temporanee,
effimere dell’ovvio. È la dimensione - in sostanza - dell’essere
controcorrente, del ri-trovarsi, non del Tempo Mitico soltanto, ma del
ritrovarsi interiore, quindi un viaggio entronautico, che avrà poi, nella
dimensione della luce e nella scoperta della luce, una stagione ulteriore
fervidissima, che ancora noi viviamo nelle opere di Caputo. Quindi, un momento importante,
di svolta, gli anni ’80 del trascorso Novecento. In questo contesto la lettura
dell’opera capu- tiana è non storicista, non lineare, rimanda a un Tempo
Mitico, che è il suo, e in cui ci ritroviamo anche tutti coloro che amiamo
andare oltre e fuori dal banale e dal contingente. La pittura di Caputo è stata
sempre un sigillo di autenticità. Stimola quasi la voglia di entrarci dentro in
questi paesaggi interiori, di toccare queste statue, ancora figure, ancora
donne e ancora statue non ben delineate; questi volti quasi mai accesi da
lucentezza esteriore eppure pregni di echi, di lucentezza interiore diversa
rispetto a quella degli occhi, la lucentezza del profondo. Abbiamo
un’esperienza di importanza capitale ricapitolando i cinquant’anni di attività
mirabile di Caputo, a cui, naturalmente, noi auguriamo tanti anni ancora di
ricerca e di ulteriori grandi esiti - così come alla bravissima figliola che
merita ogni elogio, perché non è soltanto allieva; io proprio ho detto in
“simbiosi” con questa capacità di comunicare linguaggi anche molto diversi,
bravissimi a usare le tecniche, i materiali. L’arte vera è sudore, ma è anche
pazienza, è silenzio, attenzione. La collezione di sé è anche la collezione
delle cose che meritano di essere salvate rispetto a un mondo che, ahimè, ha
poco da salvare. Tuttavia, l’arte, come sempre quando è vera, riesce a darci
una chiave anche di speranza, di risolutiva salvazione.
Ci comunica, se solo siamo capaci di
entrare realmente in sintonia con l’Opera d’Arte, uno Stile. Che Salvatore
Caputo possiede e prodigiosamente ci dona.
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