Ho partecipato a Rimini per tre intense giornate di studio e di lavoro intellettuale al 10° Convegno indetto dal Centro Studi Erickson sul tema “La qualità dell’integrazione scolastica e sociale”, con molti ottimi relatori (da Zygmunt Bauman a Edgard Morin, da Camillo Bortolato a Nicolò Ammanniti, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati) seppur leggibili sempre con lenti adeguate e sguardi accorti e consapevoli non solo sui temi e problemi trattati, senza trasbordare inconsapevolmente e senza però aprioristicamente rifiutare.
Insegno da quando avevo 18 anni (appena diplomato in una scuola privata di Palermo, la “Michele Amari”) e, con intervalli dedicati, comunque, alla scuola e alla cultura, non ho mai smesso di farlo, ai più svariati livelli: dalle elementari alle medie, alle università anche estere passando per l’Istituto Superiore di Giornalismo e l’Accademia di Belle Arti e fermandomi, da molti anni ormai, al Liceo oggi detto delle Scienze Umane. Il rapporto e la condivisione anche dialettica di orizzonti con i ragazzi è stato il mio principale compito, la mia scommessa e la mia vocazione, pur nel realismo che mi accompagna e che si basa sulla non totale sufficienza dell’istituzione e dei canoni definiti pur nell’ineluttabilità della stessa. Rapporti molto più intensi, ed è un mio limite, che con la maggioranza dei colleghi e le burocrazie dei vari livelli della scuola.
Cinquemila partecipanti a Rimini – molti giovani insegnanti – confermano che apprendimento, didattica, pedagogia e cultura, disagio e integrazione, restano comunque e malgrado tutte le pseudo riforme, in una viva tensione ideativa.
Da molti anni penso – e peraltro non realizzo – a un libro sui temi educativi. Colpevolmente ma forse con molta, sofferta umiltà, rifletto sulla decadenza dell’attuale “buona scuola”, oggi non in piccola parte ridotta ad essere come istituzione un ammortizzatore sociale, una stazione pseudobuonista, area di parcheggio per “carriere” da concludersi al più presto, canale di trasmissione di un dirigismo statalista, dall’alto, che influenza e colpisce per altro al cuore anche la c.d. scuola paritaria, copia a pagamento dello statalismo unidirezionale, espressione del pensiero unico e conformista con cui ci troviamo a convivere e comunque – anche non volendo confrontarci - in basso. Senza mai generalizzare, sia ben chiaro!
La libertà dell’insegnante e dell’insegnamento è stata così ridotta a poco, arresa com’è alla burocrazia imperante, con una sorta di tempo pieno per dover documentare l’ovvio, il vuoto concettuale, osservando con imposti e programmati strumenti, degni di un Makarenko.
Che fare, in questo ennesimo deserto che cresce? Stare anzitutto dalla parte della cultura da trasmettere ai giovani, senza albagie assolutizzanti stare al loro fianco, al loro vissuto, difficile e spesso disidentico, per fornire loro proposte di risposte non ideologiche, non totalizzanti, mai banali. Esporre, con il pathos della convinzione e dell’esperienza culturale, per far giungere ognuno non alle “mie” idee e opinioni (che non interessano in formazione i giovani allievi) quanto tendere alla conquista di un metodo della ricerca verso libere scelte umanamente e socraticamente consapevoli, con un solo limite certo da trasmettere con intransigenza: la difesa sempre e in ogni caso della integrità, dignità, inviolabilità e libertà di ogni essere umano. Il docente deve scommettere sulla formazione e sull’autonomia dei discenti senza forzature demagogiche e vacue fuori dalle costanti consuete del totalizzante curricolo ingabbiante, oltre programmi e programmazioni precotte e preconfezionate, CRIC livellanti, lontani dagli slogan imperanti sull’uso salvifico delle macchine e dei computers, intesi come unico e ineluttabile destino, ma la contempo senza demonizzarli riconducendo la tecnica a creattività, a possibilità. L’uomo è intelligente totalità, non separazione, è attività non una pura teoria da realizzare, sperimentazione nell’apprendimento e nelle costanti sempre nuove della vita, non è certo prodotto d’indicazioni ministeriali o di assemblearismo delle scelte. L’uomo è insieme spiritualità e naturalità, radice e bocciolo, sogno che è parte della realtà. Nella terra e nel cosmo. Chi vuole privilegiare l’uno sull’altro depotenzia, deprime, stronca le forze del pensiero, quelle ideative e visionarie, poetiche e razionali, logiche e di autocontrollo, da perseguire e possibilmente raggiungere. Se l’uomo è unità non ripetibile non bisogna pensare all’allievo per ingabbiarlo nella sua crescita e operatività, bisogna valorizzarlo indirizzandolo verso la consapevole sopravvivenza di sé, nella stimolazione della curiosità che è ricerca senza soste, nella possibile e certo auspicabile autosufficienza che non disdegna affatto il prossimo, i legami significativi e non effimeri, il dialogo, il confronto, ma non erige tuttavia il prossimo stesso, l’altro a idolo, annullando in tal modo se stessi verso una indeclinabile e falsa socializzazione (la società è spesso astrazione, la comunità è reale) che annulla più che ammettere veramente in rapporto con l’altro.
Di fronte al disorientamento e la perdita di volontà e di senso, frutti perversi del culto del progresso e dell’utile eretti – anche retoricamente e, peggio, buonisticamente, a sistema, occorre rispondere con il ripensare oltre gli schemi l’organizzazione e l’approdo costante ai saperi autonomi, problematici e liberi (che è cosa ben diversa dai saperi liberali, individualistici e avari o dalla creazione di un grande Pantheon moralista e sincretista di religioni, credenze e punti di vista, come sostiene Mancuso davanti al dramma francese e al già scordato dramma russo, in Egitto) slegati dal vincolo del titolo legale di studio, perseguendo piuttosto l’humanitas che ci manca per pensare bene, per la qualità dell’operare e che manca ai nostri giovani in preda all’ansia sociale per mancanza non solo di lavoro pur non obliabile ma di autorevolezza che non è lo stantio e sterile autoritarismo nonché di senso critico di capacità di attenzione di conquistata autostima e soprattutto di esempi.
Contestualizzare a cominciare dai fatti storici e privilegiare il gradualismo, la sintesi alta, gli autentici saperi e riscoprire o far scoprire ai giovani le costanti universali, non delegabili mai ai “grandi fratelli” ai leviatani che ci dominano facendoci credere liberi, e da cui tutti, giovani ed insegnati, dobbiamo sapere affrancarci insegnando ad affrancarsi con libertà e dignità.
Poche notazioni le presenti come ben possono evidenziare i miei lettori, ma forse non inutili da sviluppare in seguito e ulteriormente. Così, almeno, mi propongo grazie anche alle stimolanti giornate di Rimini e sempre nuove, necessarie motivazioni.
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