Ricordare Luigi Maniscalco Basile, dopo i dieci anni compiuti dalla scomparsa (2014, già ultranovantenne), non è solo un dovere di amico ed editore, è anche tributo sincero verso un avvocato principe del Foro, coltissimo studioso e operatore del Diritto, scrittore sicuramente non marginale per le molteplici sfaccettature del suo impegno di saggista, narratore e drammaturgo. Amico sincero e gran signore, disponibile a sostenere le buone ragioni del Sindacato Libero Scrittori Italiani (ai tempi della Segreteria di Francesco Grisi), abitava nel villino dell'Olivuzza, in quella bella e delicata palazzina palermitana, che ci regala un ricordo di Venezia, a due passi dalla Zisa dove era posto, al piano terreno sulla villetta interna, il prestigioso Studio Legale. La casa era colma - senza essere ingombra di oggetti - di splendidi quadri, mobili e suppellettili di gusto, gran parte databili fra Otto e Novecento. Prevaleva il Liberty, il tutto con una sontuosa, immensa biblioteca, che stupì perfino Ernst Jünger, suo ospite, quando organizzai nella casa di Luigi, un sontuoso ricevimento in Suo onore e di Rosario Romeo, in occasione del Premio Mediterraneo a loro assegnato, dalla giuria di cui facevo parte insieme con Nino Muccioli, Vittorio Vettori, Lucio Zinna, Grisi, Mario Sansone, Frattini e Gaetano Salveti. Cattolico liberale, fu pure Deputato regionale del P.L.I. Maniscalco Basile si schierò apertamente contro la legge che liberalizzava l'aborto, come pure ricordò nel suo libro di memorie "Storie di un avvocato". Parente di Ernesto Basile, scrisse per le prestigiose edizioni Olski di Firenze una curatissima "Storia del Teatro Massimo di Palermo", di grande successo. Collaborò al quotidiano”L’Ora", ed io raccolsi nel bel volume " Accadde in Sicilia" articoli sull’Isola frutto, delle sue argute e colte ricerche. Fra i suoi romanzi vanno almeno ricordati "Un fragore immenso" e "Il giudice Serradaquila". Vari i testi per il teatro. Curò inoltre, per "Terra di Thule", che allora dirigevo, la riedizione di un discorso palermitano di Lucio Piccolo, che era stato da lui appositamente invitato per una serata conviviale al Rotary.
Sodale di Vittorio Vettori, diresse in Sicilia, con chi scrive e con gli Amici Zinna e Franco Tomasino, l'Istituto Superiore per l'Aggiornamento Culturale "Mircea Eliade", che ancora continua la sua opera a Firenze, grazie a Ruth Cardenas. Sono lieto di riprodurre il raro discorso di Piccolo introdotto appunto da Luigi Maniscalco Basile, come omaggio a questi nostri Maggiori, indimenticabili.
Sodale di Vittorio Vettori, diresse in Sicilia, con chi scrive e con gli Amici Zinna e Franco Tomasino, l'Istituto Superiore per l'Aggiornamento Culturale "Mircea Eliade", che ancora continua la sua opera a Firenze, grazie a Ruth Cardenas. Sono lieto di riprodurre il raro discorso di Piccolo introdotto appunto da Luigi Maniscalco Basile, come omaggio a questi nostri Maggiori, indimenticabili.
Tommaso Romano
LUCIO PICCOLO PARLA DI LUCIO PICCOLO
A cura di Luigi Maniscalco Basile
Nella sala delle feste di Villa Igiea, affollata, densa di gente, si fece un grande silenzio. Alta, sonora come squilli di tromba, vellutata e dolce come scaturente da un coro di violini, si levò una voce. Aveva cominciato a parlare un signore di mezza età, dal volto nobile simile a quello di un condottiero romano, sovrastato da una fronte spaziosa sulla quale ricadevano, a frangetta, neri capelli appena brizzolati. Era Lucio Piccolo. Gli ascoltatori - eleganti dame e non meno eleganti cavalieri, seduti lungo un tavolo a ferro di cavallo, che si estendeva quasi per l'intera sala, rivestito da candide tovaglie, sul quale bicchieri, posate, vasellame scintillavano irradiati di luce – furono immersi nel mattino pasquale, prima visione colorita del mondo, nel mezzogiorno, simbolo e forza motrice del dramma esistenziale dell'umanità, nel tempo che è angoscia, nell’eternità che è terrore. Poi furono avvolti dallo scirocco mentre calava il crepuscolo e furono, alla fine, chiusi nelle spire della notte. Sullo sfondo, solenni, maestose, le grandi chiese barocche palermitane. Fu delineata dal poeta l’immagine luminosa di un grande cuore di fuoco, simbolo di misticismo e di sensualità; furono rievocate le figure dei più grandi mistici spagnuoli, di S. Teresa d'Avila e di S. Giovanni della Croce, ed il commento ai versi si chiuse. Con la sua voce bellissima Lucio Piccolo lesse, dopo averli commentati ed illustrati, alcuni dei suoi «Canti barocchi». Quando l'ultimo verso si spense, lentamente smorzandosi sotto la volta della grande sala, vi fu un istante di silenzio; poi un'ovazione immensa onorò, festeggiò il poeta che, con le sue liriche, con la sua poesia in prosa, con la sua voce, aveva affascinato gli ascoltatori. Per lunghi minuti nella grande sala risuonarono applausi scroscianti. Lucio Piccolo fu felice di questi applausi, di essere festeggiato dai suoi concittadini, nella sua città che da tanti anni aveva abbandonato per recarsi a vivere nella villa di Capo d'Orlando e che sempre ricordava e rimpiangeva. Era la sera del 28 dicembre 1968. Il Rotary Club di Palermo aveva organizzato una serata in suo onore ed egli, con cordiale gentilezza, aveva accettato di venire, lieto di tornare a Palermo e di essere onorato e festeggiato da un gruppo folto e scelto di suoi concittadini. Ci lasciammo quella sera - avevo avuto io dal Club l'incarico di prendere e di tenere con lui i necessari contatti - con la sua promessa di una visita a me in occasione della prima venuta a Palermo. Avremmo trascorso una sera insieme nella mia biblioteca, avremmo parlato di tante cose, sarebbe stata per me un'esperienza entusiasmante. Quella visita non ci fu mai, non ci fu il tempo: la morte lo colse prima che potesse venire. Ebbi solo da lui la cartolina che questo breve fascicoletto riproduce. E mi rimase un grande rimpianto. Trascrivo il commento di Lucio Piccolo ai suoi canti barocchi.
Volete che vi parli della mia poesia. Non è facile per un poeta parlare dei propri versi. Cercherò di farlo, per soddisfare il vostro desiderio, e mi limiterò a rievocare i sentimenti che ho provato e che ho sentito il bisogno di esprimere in forma poetica. Vi dirò qualcosa sul senso dei «Canti barocchi». I «Canti barocchi» sono la prima visione, naturalmente rivissuta nel subconscio ed anche nell'elemento cosciente della nostra psiche, dopo decenni e decenni, la prima apparizione del mondo, della vita, divisa nel «mattino pasquale», nel «mezzogiorno», nel «crepuscolo ventoso», e nella «notte», e hanno come centro la mia città natale, Palermo, in cui l’elemento sensibile, reale, assurge via via, per concentrazione e forza di sentimento, a simbolo senza tuttavia perdere mai le sue radici terrene, cioè senza cessare mai di essere realtà immediata. I quattro «Canti barocchi» si potrebbero dire un solo canto. Il mattino è la prima visione del mondo, la visione colorita del mondo: la Pasqua, le chiese barocche, le funzioni pasquali, il bambino che vede per la prima volta il mondo sotto l’aspetto quadripartito delle stagioni. L'«Oratorio di Valverde» è la chiesa barocca palermitana; non forse, precisamente, l’oratorio visto nell'infanzia e poi dimenticato, ma una fusione anche di altre chiese barocche, come ritorna nella memoria. Il senso nostalgico non è affidato ai soliti registri, ma ad un uso più attento e singolare dei tempi. Vuol dire che tante volte io uso un futuro che è invece un richiamo del passato, come se qualche cosa che è stata dovesse sempre ritornare. Nel mattino pasquale, il giorno, l'aurora, l'alba e l'immagine della chiesa confluiscono, convergono l'una dentro l’altra. La seconda lirica è il mezzogiorno: vuol dire, il momento in cui il senso di solitudine fa soffrire il poeta. Qui bisogna considerare il poeta nel suo stato infantile e 'nel suo stato presente, che poi possono convergere negli strati più profondi dell’io, possono essere la stessa cosa; perché noi, quando discendiamo molto giù in noi stessi, quasi quasi, direi, superiamo il tempo e riviviamo, nel presente, fatti passati, e il tempo è abolito. Dicevo che alla meridiana l'orologio solare, che dà il segno dell’ora, segna il momento di massima espansione. Nel «mezzogiorno» il senso di angoscia che l'io prova di fronte al non io, questo senso di attrazione e nello stesso tempo di smarrimento che il bambino prova di fronte al mondo, nell’ora completamente solare, come sa essere certe volte la Sicilia, sembra abolito. E il poeta canta l’inno alla liberazione ed alla solitudine; è quasi una movenza da «innodia» bizantina, un ritmo oscillante. Parlo de «La meridiana» la quale, d’altra parte, è costruita sinfonicamente, musicalmente; vi sono degli adagi, vi sono degli elementi più lenti, vi sono anche dei tentativi di trasposizione dalla prospettiva, che io studiai con questo unico scopo: trasportare la prospettiva pittorica sulla pagina, cioè nelle proiezioni immediate. Il poeta crede, nell'ora del mezzogiorno, nel profumo dell'ora, di aver vinto il senso di angoscia e di solitudine che sembra essere il destino della natura umana, come la filosofia attuale ci insegna; però è un'illusione, perché mentre il poeta guarda l’orologio solare che è sotto la cupola, il raggio che tocca il segno dei Gemelli lo riporta sul dramma esistenziale dell’eternità e del tempo. Il tempo che ci trafuga ogni cosa: io tocco un oggetto; quando lo tocco di nuovo non è più lo stesso, il tempo lo ha già allontanato; è l’eternità, che è terrore. Quindi il poeta, in principio, può avere un atteggiamento di distensione, di abbandono dell’io, di uno sciogliersi dell'io nell'universo; mentre invece l'ultima parte riporta al dramma esistenziale: tempo-angoscia, eternità-terrore. Dopo questo viene il crepuscolo ventoso, «Scirocco», il tramonto sciroccale nella città, come certi scirocchi che io ricordo, da bambino, a Palermo; certi cieli paonazzi, di tutti i colori, in cui si sentiva molto l'elemento arabo della città; sembrava veramente di essere in non so quale città da mille e una notte, in quale deserto, in quale oasi. L'ultima parte è «La notte». Al crepuscolo angoscioso, sciroccale succede la notte. La notte è il sorgere delle immagini interne. Il bambino ha visto gli antichi fabbricati (come dice la lettera a Montale), ha visto delle chiese, ha visto dei conventi, ha visto tutto questo; è come tentato dalla evocazione delle anime che hanno vissuto lì. Questi ambienti sono pieni di ombre, pieni di esistenze umane che il bambino sente sorgere in sé. Infine, la chiusura è su un'immagine dell'immenso cuore di fuoco che è il turbamento che prende nel passaggio dall’infanzia alla giovinezza. Non si sa se è misticismo o sensualità, simbolizzati attraverso il grande cuore di fuoco, che può anche essere l’altare, intravisto da una tribuna, una tribuna conventuale, non sappiamo. Qui bisogna richiamarsi un po' ai mistici spagnuoli, a Santa Teresa, a San Giovanni della Croce, anche ai casuisti; perché noi siciliani, noi palermitani, abbiamo subìto molto il senso della vita spagnola. Il macabro, nello stesso tempo fastoso, caratteristico di certi ambienti e di certe mentalità di Palermo (che ora non ci sono più, credo) proviene dalla Spagna, proviene dall’elemento spagnolo che noi palermitani abbiamo subìto molto. Il canto della notte finisce appunto con questo senso di smarrimento; è sensualità, è misticismo, è questa grande attesa, questo grande cuore che batte nella notte palermitana. Le parole che Lucio Piccolo pronunziò quella sera a commento ed illustrazione dei suoi versi sono poesia pura, poesia in prosa e sono tanto più importanti in quanto, a quanto mi risulta, quella fu l’unica volta che Lucio Piccolo commento i suoi versi. Una importante indicazione per intendere la poesia del Piccolo ci viene da Montale il quale nel delinearla così scrive: «Difficile è fare andare d'accordo il senso letterale e il senso musicale di una lirica. I due sensi possono presentare diversi gradi di incompatibilità. Può essere evidente il significato razionale e segreta risposta, quasi inafferrabile, la musica verbale: o può accadere il contrario. D'altra parte, una lirica non può essere fatta soltanto di musica; essa chiede di rivelare un senso che una semplice armonia di parole inintelligibili non può darle». Queste enunciazioni, sull’ultima delle quali (che una lirica non può essere fatta solo di musica e di parole non intelligibili) sono sommessamente in disaccordo, mi sembrano molto importanti per la contrapposizione fra significato razionale e musica verbale di una lirica che in essa è fatta. E nasce qui un interrogativo la cui soluzione è necessaria per giudicare l'esattezza di quel che Montale afferma e di quel che Montale nega: che cosa è la musica? La risposta - che pochi si curano di ricercare - ci viene da due grandi spiriti: da Schopenhauer e dal Wittgenstein. Il primo ha definito la musica come un linguaggio che si diparte dall'irrazionale per arrivare all’irrazionale (che si diparte, cioè, dalla sfera di irrazionale che contribuisce a comporre la personalità del musicista per pervenire alla sfera di irrazionale che contribuisce a comporre la personalità dell'interprete e quella dell’ascoltatore); ed una notazione analoga si legge in una delle lettere del grande autore del Tractatus. Sono due enunciazioni che fanno pensare, e che ci rendono avvertiti della possibilità che gli uomini hanno di comunicare per il tramite delle rispettive sfere di irrazionale, al di fuori del canale razionale. Insegnamento non nuovo che ci viene, oltre che, in modo meno compiuto e meno definito, dalla filosofia occidentale, da talune filosofie o religioni orientali le quali asseriscono che la verità sboccia in noi anche al di fuori del canale razionale e che questo costituisce solo uno dei veicoli attraverso i quali vengono trasmesse la conoscenza e la verità e, forse, fra questi è il più modesto. E qui io vorrei enunciare una mia ipotesi personale che mi serve di guida per intendere alcuni aspetti dell'arte moderna.
E' riconosciuto e certo che con l'inizio di questo secolo si è verificata, in tutte le arti, una cosiddetta rottura del linguaggio; nella musica con l'abbandono del sistema tonale usato nella composizione da quattrocento anni; nella pittura e nella scultura con l'espressionismo, il fauvismo, il cubismo, il futurismo e gli altri numerosi movimenti, sviluppatisi nella prima metà di questo secolo, che sarebbe lungo ricordare; nella letteratura con il futurismo e poi con Pasternak e, soprattutto, con Joyce. Questi fenomeni sono stati largamente analizzati, ma di rado si tenta di risalire all'esigenza, certamente unica, che ha determinato delle rotture così radicali. Ponendomi il problema ed esaminandolo, mi sono formato un convincimento: che l'uomo di questo secolo fosse maturo, dopo gli splendori e le conquiste che hanno caratterizzato, nel campo dell'arte, i secoli precedenti, per una comunicazione artistica più ampia di quella ristretta nei limiti del canale razionale; e che abbia avuto così inizio, senza che ciò fosse accompagnato da una chiara presa di coscienza del fenomeno, una comunicazione artistica irrazionale; gli artisti ed i destinatari dell'arte si sono messi in contatto ponendo in comunicazione le sfere irrazionali inerenti, in modo costitutivo, alle rispettive personalità.
Ed ecco l’arte moderna: davanti ad una pittura astratta riceviamo talvolta delle intense emozioni estetiche che non siamo in grado di individuare sul piano razionale, ma che non sono, perciò, meno valide. Questo non è un fenomeno nuovo; si è sempre verificato dai tempi di Pindaro sino alla fine dell’Ottocento, secolo nel quale Rimbaud, la più alta voce della poesia di quel tempo, ci offre nel Voyage à l’enfer e nelle Illuminations esempi, a mio avviso, tipici di questo fenomeno di comunicazione estranea al canale razionale. La poesia di Piccolo, modernissima, non è moderna nel senso di cui sopra poiché è chiaramente dispiegata nel campo del razionale. Ma nei versi che la compongono - e mi rifaccio qui alla musica di parole di cui ci parla Montale - vi è, a mio avviso, un alto contenuto irrazionale che si aggiunge a quello razionale. E che sia così forse nemmeno lo stesso Piccolo poteva confermarcelo perché è sempre difficile per un uomo d'arte, poeta o musicista o creatore di immagini, dare conto in modo compiuto di ciò che forma oggetto delle sue realizzazioni artistiche. Ha scritto Borges: «Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere». Il che conferma, in qualche misura, quel che ho detto sopra.
Da “Terra di Thule”, Anno III, Romano editore, Gennaio 1987
Volete che vi parli della mia poesia. Non è facile per un poeta parlare dei propri versi. Cercherò di farlo, per soddisfare il vostro desiderio, e mi limiterò a rievocare i sentimenti che ho provato e che ho sentito il bisogno di esprimere in forma poetica. Vi dirò qualcosa sul senso dei «Canti barocchi». I «Canti barocchi» sono la prima visione, naturalmente rivissuta nel subconscio ed anche nell'elemento cosciente della nostra psiche, dopo decenni e decenni, la prima apparizione del mondo, della vita, divisa nel «mattino pasquale», nel «mezzogiorno», nel «crepuscolo ventoso», e nella «notte», e hanno come centro la mia città natale, Palermo, in cui l’elemento sensibile, reale, assurge via via, per concentrazione e forza di sentimento, a simbolo senza tuttavia perdere mai le sue radici terrene, cioè senza cessare mai di essere realtà immediata. I quattro «Canti barocchi» si potrebbero dire un solo canto. Il mattino è la prima visione del mondo, la visione colorita del mondo: la Pasqua, le chiese barocche, le funzioni pasquali, il bambino che vede per la prima volta il mondo sotto l’aspetto quadripartito delle stagioni. L'«Oratorio di Valverde» è la chiesa barocca palermitana; non forse, precisamente, l’oratorio visto nell'infanzia e poi dimenticato, ma una fusione anche di altre chiese barocche, come ritorna nella memoria. Il senso nostalgico non è affidato ai soliti registri, ma ad un uso più attento e singolare dei tempi. Vuol dire che tante volte io uso un futuro che è invece un richiamo del passato, come se qualche cosa che è stata dovesse sempre ritornare. Nel mattino pasquale, il giorno, l'aurora, l'alba e l'immagine della chiesa confluiscono, convergono l'una dentro l’altra. La seconda lirica è il mezzogiorno: vuol dire, il momento in cui il senso di solitudine fa soffrire il poeta. Qui bisogna considerare il poeta nel suo stato infantile e 'nel suo stato presente, che poi possono convergere negli strati più profondi dell’io, possono essere la stessa cosa; perché noi, quando discendiamo molto giù in noi stessi, quasi quasi, direi, superiamo il tempo e riviviamo, nel presente, fatti passati, e il tempo è abolito. Dicevo che alla meridiana l'orologio solare, che dà il segno dell’ora, segna il momento di massima espansione. Nel «mezzogiorno» il senso di angoscia che l'io prova di fronte al non io, questo senso di attrazione e nello stesso tempo di smarrimento che il bambino prova di fronte al mondo, nell’ora completamente solare, come sa essere certe volte la Sicilia, sembra abolito. E il poeta canta l’inno alla liberazione ed alla solitudine; è quasi una movenza da «innodia» bizantina, un ritmo oscillante. Parlo de «La meridiana» la quale, d’altra parte, è costruita sinfonicamente, musicalmente; vi sono degli adagi, vi sono degli elementi più lenti, vi sono anche dei tentativi di trasposizione dalla prospettiva, che io studiai con questo unico scopo: trasportare la prospettiva pittorica sulla pagina, cioè nelle proiezioni immediate. Il poeta crede, nell'ora del mezzogiorno, nel profumo dell'ora, di aver vinto il senso di angoscia e di solitudine che sembra essere il destino della natura umana, come la filosofia attuale ci insegna; però è un'illusione, perché mentre il poeta guarda l’orologio solare che è sotto la cupola, il raggio che tocca il segno dei Gemelli lo riporta sul dramma esistenziale dell’eternità e del tempo. Il tempo che ci trafuga ogni cosa: io tocco un oggetto; quando lo tocco di nuovo non è più lo stesso, il tempo lo ha già allontanato; è l’eternità, che è terrore. Quindi il poeta, in principio, può avere un atteggiamento di distensione, di abbandono dell’io, di uno sciogliersi dell'io nell'universo; mentre invece l'ultima parte riporta al dramma esistenziale: tempo-angoscia, eternità-terrore. Dopo questo viene il crepuscolo ventoso, «Scirocco», il tramonto sciroccale nella città, come certi scirocchi che io ricordo, da bambino, a Palermo; certi cieli paonazzi, di tutti i colori, in cui si sentiva molto l'elemento arabo della città; sembrava veramente di essere in non so quale città da mille e una notte, in quale deserto, in quale oasi. L'ultima parte è «La notte». Al crepuscolo angoscioso, sciroccale succede la notte. La notte è il sorgere delle immagini interne. Il bambino ha visto gli antichi fabbricati (come dice la lettera a Montale), ha visto delle chiese, ha visto dei conventi, ha visto tutto questo; è come tentato dalla evocazione delle anime che hanno vissuto lì. Questi ambienti sono pieni di ombre, pieni di esistenze umane che il bambino sente sorgere in sé. Infine, la chiusura è su un'immagine dell'immenso cuore di fuoco che è il turbamento che prende nel passaggio dall’infanzia alla giovinezza. Non si sa se è misticismo o sensualità, simbolizzati attraverso il grande cuore di fuoco, che può anche essere l’altare, intravisto da una tribuna, una tribuna conventuale, non sappiamo. Qui bisogna richiamarsi un po' ai mistici spagnuoli, a Santa Teresa, a San Giovanni della Croce, anche ai casuisti; perché noi siciliani, noi palermitani, abbiamo subìto molto il senso della vita spagnola. Il macabro, nello stesso tempo fastoso, caratteristico di certi ambienti e di certe mentalità di Palermo (che ora non ci sono più, credo) proviene dalla Spagna, proviene dall’elemento spagnolo che noi palermitani abbiamo subìto molto. Il canto della notte finisce appunto con questo senso di smarrimento; è sensualità, è misticismo, è questa grande attesa, questo grande cuore che batte nella notte palermitana. Le parole che Lucio Piccolo pronunziò quella sera a commento ed illustrazione dei suoi versi sono poesia pura, poesia in prosa e sono tanto più importanti in quanto, a quanto mi risulta, quella fu l’unica volta che Lucio Piccolo commento i suoi versi. Una importante indicazione per intendere la poesia del Piccolo ci viene da Montale il quale nel delinearla così scrive: «Difficile è fare andare d'accordo il senso letterale e il senso musicale di una lirica. I due sensi possono presentare diversi gradi di incompatibilità. Può essere evidente il significato razionale e segreta risposta, quasi inafferrabile, la musica verbale: o può accadere il contrario. D'altra parte, una lirica non può essere fatta soltanto di musica; essa chiede di rivelare un senso che una semplice armonia di parole inintelligibili non può darle». Queste enunciazioni, sull’ultima delle quali (che una lirica non può essere fatta solo di musica e di parole non intelligibili) sono sommessamente in disaccordo, mi sembrano molto importanti per la contrapposizione fra significato razionale e musica verbale di una lirica che in essa è fatta. E nasce qui un interrogativo la cui soluzione è necessaria per giudicare l'esattezza di quel che Montale afferma e di quel che Montale nega: che cosa è la musica? La risposta - che pochi si curano di ricercare - ci viene da due grandi spiriti: da Schopenhauer e dal Wittgenstein. Il primo ha definito la musica come un linguaggio che si diparte dall'irrazionale per arrivare all’irrazionale (che si diparte, cioè, dalla sfera di irrazionale che contribuisce a comporre la personalità del musicista per pervenire alla sfera di irrazionale che contribuisce a comporre la personalità dell'interprete e quella dell’ascoltatore); ed una notazione analoga si legge in una delle lettere del grande autore del Tractatus. Sono due enunciazioni che fanno pensare, e che ci rendono avvertiti della possibilità che gli uomini hanno di comunicare per il tramite delle rispettive sfere di irrazionale, al di fuori del canale razionale. Insegnamento non nuovo che ci viene, oltre che, in modo meno compiuto e meno definito, dalla filosofia occidentale, da talune filosofie o religioni orientali le quali asseriscono che la verità sboccia in noi anche al di fuori del canale razionale e che questo costituisce solo uno dei veicoli attraverso i quali vengono trasmesse la conoscenza e la verità e, forse, fra questi è il più modesto. E qui io vorrei enunciare una mia ipotesi personale che mi serve di guida per intendere alcuni aspetti dell'arte moderna.
E' riconosciuto e certo che con l'inizio di questo secolo si è verificata, in tutte le arti, una cosiddetta rottura del linguaggio; nella musica con l'abbandono del sistema tonale usato nella composizione da quattrocento anni; nella pittura e nella scultura con l'espressionismo, il fauvismo, il cubismo, il futurismo e gli altri numerosi movimenti, sviluppatisi nella prima metà di questo secolo, che sarebbe lungo ricordare; nella letteratura con il futurismo e poi con Pasternak e, soprattutto, con Joyce. Questi fenomeni sono stati largamente analizzati, ma di rado si tenta di risalire all'esigenza, certamente unica, che ha determinato delle rotture così radicali. Ponendomi il problema ed esaminandolo, mi sono formato un convincimento: che l'uomo di questo secolo fosse maturo, dopo gli splendori e le conquiste che hanno caratterizzato, nel campo dell'arte, i secoli precedenti, per una comunicazione artistica più ampia di quella ristretta nei limiti del canale razionale; e che abbia avuto così inizio, senza che ciò fosse accompagnato da una chiara presa di coscienza del fenomeno, una comunicazione artistica irrazionale; gli artisti ed i destinatari dell'arte si sono messi in contatto ponendo in comunicazione le sfere irrazionali inerenti, in modo costitutivo, alle rispettive personalità.
Ed ecco l’arte moderna: davanti ad una pittura astratta riceviamo talvolta delle intense emozioni estetiche che non siamo in grado di individuare sul piano razionale, ma che non sono, perciò, meno valide. Questo non è un fenomeno nuovo; si è sempre verificato dai tempi di Pindaro sino alla fine dell’Ottocento, secolo nel quale Rimbaud, la più alta voce della poesia di quel tempo, ci offre nel Voyage à l’enfer e nelle Illuminations esempi, a mio avviso, tipici di questo fenomeno di comunicazione estranea al canale razionale. La poesia di Piccolo, modernissima, non è moderna nel senso di cui sopra poiché è chiaramente dispiegata nel campo del razionale. Ma nei versi che la compongono - e mi rifaccio qui alla musica di parole di cui ci parla Montale - vi è, a mio avviso, un alto contenuto irrazionale che si aggiunge a quello razionale. E che sia così forse nemmeno lo stesso Piccolo poteva confermarcelo perché è sempre difficile per un uomo d'arte, poeta o musicista o creatore di immagini, dare conto in modo compiuto di ciò che forma oggetto delle sue realizzazioni artistiche. Ha scritto Borges: «Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere». Il che conferma, in qualche misura, quel che ho detto sopra.
Da “Terra di Thule”, Anno III, Romano editore, Gennaio 1987
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