sabato 7 marzo 2015

Lucio Zinna e la metafisica poetica del quotidiano

Fra i troppi questuanti e falsi interpreti della poesia contemporanea che si aggirano con "grave sufficienza" come di incompresi geni, poche sono oggi le autentiche figure di poeti e letterati di qualità, fra questi un posto speciale spetta certamente a Lucio Zinna che in un sessantennio di fedeltà alla poesia (la sua prima prova d'autore è infatti del 1954, Al chiarore dell'alba), con discrezione e stile d'uomo e d'artista, ha centellinato autentiche pepite d'oro di testi e riflessioni esistenziali ed etiche, mai moralistiche (“al sommo bene dei moralisti io scelgo il bene dell’intelligenza” come scrisse Cesare Cellini il giovane poeta amico, anche di Lucio Zinna). Se la sua lirica, di scandaglio del quotidiano, spesso gravato di pesantezze totalizzanti, insopportabili, costruendo così una zona di ammutinamento, un'arca ideale, una tenda, dove "resistere", insieme a poche, scelte persone (a cominciare dalla compagna e musa di una vita, Elide), circondato da animali liberi e fedeli a loro modo come i gatti, spesso emblematicamente presenti nei suoi testi("maestri di felina virtù", R. Onano); ma soprattutto con le posizioni di vetta conquistate in coscienza, interiormente e difese dall'assalto spesso volgare dell'ovvio.
Nato a Mazara del Vallo nel 1938, insegnante, laureatosi a Palermo in Pedagogia e Filosofia con una tesi su Maritain, e lungo direttore didattico, per lunghi decenni di stanza a Palermo, vive da qualche anno a Bagheria in una bella e serena casa con vista sul mare di Capo Zafferano.
Poeta, narratore (di cui ricordo il fortunato libro su Nievo Come un sogno incredibile. Ipotesi sul caso Nievo,1980, e il volume da me edito con Thule, Il ponte dell’Ammiraglio e altre narrazioni), saggista e critico letterario, animatore di riviste (“L’Achenio”, “Sintesi”, l’importante “Arenaria”) con la partecipazione al gruppo ’63 e poi all’Antigruppo e la creazione, sulla scia, del Gruppo Beta (con Castrense Civello, Elvezio Petix, Melo Freni, Giovanni Cappuzzo, Aurelio Pes, Angelo Fazzino) e poi dell’Istituto Siciliano di Letteratura Contemporanea e Scienze Umane e, adesso, con l’informale e attivo movimento degli “Amici delle Poesia”.
La radice mazarese, che simbolicamente coniuga il limes e la mediterraneità, è un elemento fondamentale che, dall’iniziale raccolta Al chiarore dell’alba a partire dal 1954,e ancora nella raccolta più strutturata della formazione iniziale di Zinna, Il Filobus dei giorni, del 1964, dove si ritrovano elementi memoriali, psicologici e di malinconia esistenziale, giorni di esiti e percorsi assai complessi,tali volumetti furono editi dall’Organizzazione Editoriale David Malato, per i “Quaderni del Ciclope” (diretti da Giuseppe Ganci Battaglia, fra i primi poeti di riferimento di Lucio, e a cui il Nostro non mancherà di dedicare attenzione critica e biografica, nel tempo), tali fondanti motivi lo accompagnavano in un itinerario circolare (l’eterno ritorno), insieme ricordo, inteso come richiamo del cuore, consapevolezza dell’illusorietà del presente, mentre tutto in realtà va dissolvendosi: “Impercettibilmente, un attimo appresso all’altro”.
Ecco così snodarsi nell’opera poetica e in quella narrativa (vedi anche Ove bevea Rosmunda) il ritorno sporadico ma necessario a Mazara, con l’impronta dell’interiorità memoriale fatta di affetti ed effetti della giovinezza, della centrale figura materna e del padre sempre oltre la riva lontano, dai luoghi fondanti una antica mescolanza, che non è sincretistica indistinzione o dimenticanza: il Màzaro, Mokarta, Miragliano, l’arenaria di Santa Venera, il barocco del monastero di San Michele, che si incrociano insieme al ricordo dell’iniziazione sentimentale e alla locali conoscenze, anche colte, attraverso una moviola delle occasioni perdute, che vibra di sensibilità, nella consapevolezza che “ si vive in diretta non si va mai in differita” e che, ad ognuno, con le proprie scelte sempre in bilico, “non resta che il governo delle conseguenze”.
Palermo, la città che per molti decenni accompagnerà il cammino di Lucio Zinna, il formarsi e il crescere della sua famiglia, lo accoglierà agli inizi degli anni Sessanta, studente universitario e istitutore al Convitto Nazionale e ancora supplente per sbarcare il difficile lunario e per poi conseguire la laurea, e quindi il matrimonio, i figli, l’insegnamento e le direzioni didattiche e, tuttavia, costante e sempre centrale rimarrà e resta la poesia fatta di pochi, densissimi testi, raccolti e centellinati negli anni come un alchimista, in plaquette e antologie edite anche con intervalli lunghi, in cui tuttavia c’è “materia di densa biografia”. Osservazione e distacco contro la retorica, ironia e disgusto per molte delle miserie odierne, vissute e descritte sempre con realismo, si intersecano con una raffinata cultura testimoniata anche da studi saggistici esemplari su Autori nodali (da Nietzsche a Kafka, da Bergson a Dante e Leopardi, da Valery a Pound e Pirandello) molti dei quali ho ripubblicato, con l’ISSPE nel 2007, con il titolo La parola e l’Isola.
E’ pertanto condivisibile quanto scrive Rossano Onano della scrittura di Zinna, come ripiena di “eleganza, di peso e naturalezza, senza mai avvertire le necessità di pose o forzature narcisistiche”, Antimonium 14, del 1965, è una essenziale narrazione che si risolve nell’indagine sperimentale nel cuore del segno, della parola evocativa e labirintica, che troverà il suo senso pieno, prima nelle composizioni di Un rapido celiare (Quaderni del Cormorano, 1974) e, compiutamente, nella lezione esemplare – come giustamente sostenuto da Elio Giunta in un suo saggio nell’opera zinniana – di Sàgana (Il Punto p.l.a, 1976) e poi in Abbandonare Troia (Forum/Quinta Generazione, 1986).
Come ha affermato Maria Grazia Canfarelli, in queste opere, «l’escursione stilistica del poeta è mescolanza di toni, di espressioni che della quieta colloquidità sconfinano in un vivido pluralismo lessicale e sintattico con cui assembla o smembra stilemi derivati da fonti colte o da prestiti letterari. Le nozioni di memoria, difesa, resistenza hanno una tonalità energica spesso risolta in divertissement, in sano piacere del gioco che rinnega e ribalta l’auto – commiserazione».
Con queste opere Zinna perviene alla piena maturità stilistica, nella inconfondibilità del linguaggio e nel dettato metaforico, sempre consapevole tuttavia dei rischi e dei sommovimenti tellurici tipici della condizione umana e della stessa irripetibile propria avventura personale.
Accanto e in felice concordanza di toni e di ricerca gnostica opportunamente con temi che potrebbero apparire consueti, domestici e territoriali, Zinna testimonia l’avventura in versi che si snodano attraverso un sentiero irto, che riconduce all’interiorità originaria (oggettiva, direbbe Michele Federico Sciacca), al viaggio entro se stessi, partendo dalla biografia, dagli avvenimenti e dai volti del quotidiano, filtrati con civile compostezza e con sottilissima, qualche volta difficilmente decifrabili, critica e ironia dell’altrove.
Zinna, che pur è stato ed è protagonista dell’agone letterario e del dibattito critico, in fondo è però un solitario interprete del disagio, civilissimo nella denuncia del tempo amaro che ci è dato vivere e implacabile nella sottolineatura della condizione siciliana (senza demonizzazioni aprioristiche e senza il velo di acritiche o agiografiche esaltazioni) che è insieme geografica, geometrica e spirituale. Per tali ragioni la poesia di Zinna diviene emblematicamente universale e si fa tale proprio a partire dalla propria condizione, senza per questo voler essere poesia d’ammaestramento, perché con Heidegger “la poesia è un modo di vivere”, nel “ tempo della povertà”.
La stessa scelta radicale di Zinna di esserci e di restare in Sicilia, pur con tentazioni sempre latenti di esodo dalla terra madre (e a volte matrigna), è testimonianza di un radicamento che si snoda in una pratica quasi stoica, mai indifferente, dignitosa, garbata e cosciente nell’amara constatazione della condizione tragica ma al contempo radicalmente capace di resistenza e segnavia proprio nella poesia ancora trascendente la rivitalizzante opportunità di scioglier, fra sentimento e ratio i legami con la dissoluzione, il nichilismo, la violenza, la sciatteria e il basso edonismo (cfr. il poemetto De Rebus Siciliae)

“ad ogni
bivio reale divendica il caso il diritto ad una
compartecipazione alle scelte(…)
Opera tu per la tua parte
mettiti in guerra la coscienza
- insisti stringi
i denti – per il resto (sia chiaro) la vita
è vita e và (per la sua parte) dove la vita vuole”.
 
Sono “stazioni dell’attraversamento”, che Rodolfo Di Biasio indica nelle ventiquattro composizioni de La porcellana più fine (Sciascia, 2001), nella ferma consapevolezza che “ciascun giorno che ha la sua circoscritta infinità” presuppone forse “ gli attimi che precedono i verdetti”.
Sono i testi zinniani, come ha scritto di sé lo stesso autore, delle autentiche confessioni laiche senza attendere assoluzioni. E dato che ti stiamo vendendo libertà, occorre per Zinna coltivare l’utopia di nome libertà, esplorando a volte in apparente superficie e in rapido celiare, “come il tonico di una bevanda amara” a mezz’aria (titoli questi ultimi di recenti sillogi di Zinna), che “può significare che c’è un periodo di sosta, una fase sospesa tra l’inarrestabile scorrere delle stagioni storiche e l’eternità”(Roberto Tortora),in modo quasi eterico, come magari gli angeli usando il gioco a nascondere della parola, la sua duplicità , ambivalenza, il sottinteso, il neologismo, la metafora per dire al fondo, in profondità “molto di più di quello che afferma. E non è solamente una questione di linguaggio” come notava giustamente Francesco Grisi per la poesia di Zinna e ancora, come notava il filosofo Antonino Noto,per sostenere l’essenzialità nella pluralità :”ogni vero linguaggio non è solo comunicazione di parole ma comunicazione di miti, comunicazione di essere nelle parole e attraverso le parole”.
E’ proprio nell’antienfasi, nell’epopea dell’emarginazione (Elio Giunta) che possiamo trovare quelle corrispondenze essenziali, quelle aperture di luce e di intelletto che sono proprie degli esploratori dell’anima (definizione che Zinna consegna ad autori da lui amati quali Borges, Ritsos, Luzi, Accrocca).
Il quotidiano sofferto e a, suo modo, epico di Zinna, diventa così il punto necessario all’infinito della parola del linguaggio (che non è semplice comunicazione), per “scavare nei secoli” direbbe Cellini, nell’eterno, che è della poesia. Scrive infatti Zinna: «considero la poesia una ricerca di verità che si traduce in ricerca linguistica» e tuttavia resta un quid di misterioso che rientra, per una certa parte, sulla poesia, misterioso in quanto sfugge allo stesso poeta ».
Dal margine, dal confine al centro, insomma, dal clandestino (che è l'arca, la tenda bonsai , da intendersi anche come clan di destino) in una sorta di metafisica delle cose concrete, per un felice concetto di Pavel Florenskij, "Mi servono tessere d'oro" dice il poeta per coltivare un senso oltre il magma, nell'umanesimo, per trovare nella "porcellana più fine” ciò che è la cifra della “speranza (la "Fede" avresti detto)\ che qualcosa si muova oltre l’alpacca\ del dubbio che qualcuno ci attende\ oltre quel filo memore perituro macigno".
È il verso di vivere che ha nella poesia il suo metamorfico, autentico dimensionarsi nell’oltrità cosmica senza tempo.

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